Continua con il terzo capitolo la storia “Ofelia, compagna di lotta” di Enrico De Zottis


Tre esami. Mi mancavano solamente tre esami per laurearmi, quando decisi che era ora di gettare la maschera della brava ragazza e cambiare me stessa, cambiare tutto. La morte di Giulia aveva reso tutto cristallino, inequivocabile. Non c’era più un “forse”, un “ma”, un “se”. Non più volantini e manifestazioni, ma l’impegno totale, il corpo e l’anima dati alla lotta armata. E questo significava sparire. Significava non essere più Laura F. ma diventare, completamente, Ofelia.

Era il Cenone di Natale del 1972. Sapevo che sarebbe stato l’ultimo che avrei passato con i miei genitori per chissà quanto tempo. Forse per sempre. Mia madre aveva preparato i cappelletti in brodo, come ogni anno. L’odore di salvia e parmigiano, il calore della stufa che cercava di combattere il freddo di dicembre. Mio padre, seduto a capotavola, i capelli ormai più bianchi, la schiena un po’ più curva del solito. Mi guardavano, i loro occhi pieni di quell’amore incondizionato che solo i genitori sanno dare. Parlavamo dei miei esami, di quando mi sarei laureata, del “posto fisso” che mi aspettava. Erano fieri di me, di Laura, la loro figlia che ce l’aveva fatta, che non avrebbe patito la loro stessa fatica.

Ogni boccone mi si bloccava in gola. Ogni loro sorriso mi lacerava dentro. Volevo urlare. Volevo dire loro: “Non ce la faccio! Non posso continuare a recitare questa farsa mentre il mondo brucia e Giulia è morta!” Ma non potevo. Non avrebbero capito. Per loro, la Resistenza era finita. La lotta era stata un male necessario per ritornare alla normalità, a una vita “pulita”, proprio come il paese intero provava a fare. E ora la loro figlia stava per scegliere la strada che loro stessi avevano percorso, ma per ragioni che loro non comprendevano, e in un modo che a loro sarebbe sembrato tradimento.

Il senso di colpa era un macigno sul petto. Ero la loro speranza, il loro riscatto. E stavo per deluderli, per farli soffrire come mai prima. Sapevo che avrebbero avuto paura, che avrebbero pianto per me. Ma mentre il dolore mi attanagliava, qualcos’altro dentro di me si faceva sentire, forte, implacabile. La voce di Giulia, la fatica di mio padre operaio, le pagine di Marx. Questo sistema doveva crollare. E non si fa crollare un sistema con le buone intenzioni.

Loro avevano lottato, a modo loro. Avevano preso le armi. Avevano sacrificato la loro vita normale per un ideale più grande. E io, la figlia di quei partigiani, non potevo essere da meno. Stavo facendo la cosa giusta, la cosa necessaria. Il loro sacrificio mi aveva insegnato che la libertà va conquistata. E il sacrificio di Giulia mi aveva insegnato che a volte, l’unico modo per conquistarla è la violenza. Non era una scelta facile. Ma per me era l’unica possibile.

Quando li abbracciai quella sera, cercai di imprimere nella memoria l’odore della casa, il tocco delle loro mani ruvide. Sapevo che stavo lasciando indietro una vita, una promessa, una famiglia. Ma stavo entrando nella mia vera esistenza. Stavo diventando Ofelia.

Un anno dopo avevo già partecipato a cinque sparatorie, sabotato una decina tra auto e mezzi blindati della polizia e rapinato due gioiellerie. La trasformazione era stata rapida, brutale. Non c’era tempo per i ripensamenti, per le esitazioni. Ogni azione era un passo in più, una linea invisibile superata. Non ero più Laura, la studentessa di Lettere e Filosofia. Per i miei compagni e compagne ero Ofelia, e la mia università ora era la strada, i miei libri erano le mappe, le mie parole erano i colpi di una pistola.

Ricordo la prima rapina. Il cuore mi batteva all’impazzata, il sudore freddo che mi imperlava la schiena sotto il giubbotto. Le mani che stringevano l’arma, una sensazione strana, quasi surreale, eppure potente. Entrare in quella gioielleria lussuosa, con le vetrine piene di sogni irraggiungibili per la gente come noi, come me, era come abbattere una parete, un simbolo. Era la nostra rivendicazione, la riappropriazione di ciò che sentivamo ci fosse stato sottratto da anni. Le parole, gli slogan, non avevano ottenuto nulla. Ma una rapina, quella sì, faceva parlare. Faceva paura. E questo, per noi, significava che eravamo sulla strada giusta.

Ogni sparatoria, ogni sabotaggio, era un’affermazione. Non eravamo fantasmi, non eravamo solo voci. Eravamo lì, presenti, capaci di colpire. La clandestinità, all’inizio, è stata un vortice di adrenalina e paura. Nomi di battaglia, appuntamenti in luoghi sempre diversi, documenti falsi, volti che apparivano e scomparivano. Ogni giorno era un calcolo di rischi, una verifica costante. La fiducia si guadagnava sul campo, con la lealtà, con la prontezza d’azione. Si dormiva poco, si mangiava in fretta, si viveva di nascosto, ma si sentiva di vivere davvero, per la prima volta. Ogni sacrificio, ogni rinuncia, erano giustificati dalla visione di un futuro in cui la giustizia, quella vera, avrebbe finalmente trionfato. E per quel futuro, eravamo disposti a pagare qualsiasi prezzo.


Il quarto capitolo di “Ofelia, compagna di lotta” verrà pubblicato domani giovedì 26/06/2025
Il primo capitolo è stato pubblicato il 23/06/2025: https://www.ildiarioonline.it/2025/06/23/gotico-trevigiano-ofelia-compagna-di-lotta-1/
Il secondo capitolo è stato pubblicato il 24/06/2025: https://www.ildiarioonline.it/2025/06/24/gotico-trevigiano-ofelia-compagna-di-lotta-2/

Enrico De Zottis
Enrico De Zottis Nato a Venezia nel 1987 e cresciuto a Mogliano Veneto, da oltre un decennio si occupa professionalmente di Gestione delle Risorse Umane presso aziende multinazionali. Ad oggi vive e lavora a Lione (Francia). Nel tempo libero si dedica allo studio di tematiche socio-economiche, oltre che alla musica e al trekking. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a Padova e un Master in Analisi Economica a Roma.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here