Nel famoso film di Ermanno Olmi (1978), che vinse la Palma d’oro a Cannes e ci commosse tutti alle vicende di vita di una poverissima famiglia bracciantile, l’albero degli zoccoli era un “talpòn”. Era, in altre parole e per chi non conosce la terminologia botanica scientifica, un pioppo nero (Populus nigra), capitozzato.
Legno tenero quello del pioppo, facile come tale da lavorare, ma assai poco resistente all’abrasione dovuta all’uso degli zoccoli.
Quella famiglia, comunque, abitava una cascina tipicamente lombarda e dunque viveva in una realtà culturale propria certo della Pianura padana, ma diversa da quella veneta. Nella realtà veneta e in particolare in quell’appendice di Pianura veneta che chiamiamo Veneto Orientale, l’albero degli zoccoli apparteneva ad una specie diversa.
Si trattava infatti dell’Opi o Opio (così lo chiamavano, sempre in termini scientifici, i contadini locali), che in italiano risponde al nome di Acero campestre (Acer campestris). Una scelta diversa e motivata dal fatto che, essendo il legno dell’Acero campestre assai compatto e resistente all’abrasione, l’impegnativo lavoro di costruzione di un paio di zoccoli poteva servire più generazioni contadine. Magari rafforzandone le suole con le “brocche” metalliche.
I Veneti, peraltro, si sono sempre distinti per intelligenza, perspicacia, sagacia, furbizia, tenacia, servilismo e chi più ne ha più ne metta. Non a caso sono gli italiani in assoluto più bastardi, potendo contare su una mescolanza di geni anatolici, longobardi, bizantini, ungheresi, dalmati e via dicendo.
Stiamo scherzando, ovviamente; o meglio, stiamo dicendo la verità scherzando, tanto per smentire i fautori della “pura razza veneta”, che non esiste nemmeno per i polli.
Tornando all’Acero campestre, va detto che nonostante il suo contributo fondamentale alla vita e all’economia contadina – con il suo legno si costruivano anche i gioghi per i buoi – risulta essere una delle specie arboree più ignorate a livello ornamentale. Questo nonostante si tratti di un albero di terza grandezza (altezza massima 15 m), spesso a portamento policormico, spogliante, con fogliame di un bel verde intenso che vira al giallo oro in autunno.
La ragione di questo ostracismo non è nota e può essere giustificata soltanto dal fatto che gli architetti paesaggisti e i vivaisti, loro alleati, non lo conoscono e comunque gli preferiscono cedri, magnolie, betulle e liquidambar.
Per quanto mi riguarda è stato il primo albero che ho messo a dimora nel mio piccolo giardino urbano (circa 300 mq, con oltre 240 specie di piante. Non un giardino, ma una “selva oscura” in cui s’annidano serpenti, piante carnivore e voraci zanzare tigre).
Quel piccolo albero, che oggi, a distanza di circa cinquant’anni mi infesta il giardino di figli, per riconoscenza peraltro non richiesta, mi ricorda la campagna. Quella del Novecento, che forse qualcuno della mia folta schiera di lettori ricorda. Quella che mi ha accolto maternamente e allevato culturalmente. Quella con i fossi percorsi da acque profumate e pulite, traboccanti di vita e ombreggiate da siepi alberate in cui l’acero campestre non mancava mai.
Ma a ricordarlo, forse, c’è ancora qualche vecchio contadino, sopravvissuto al tramonto della mezzadria, alla semplificazione estrema del paesaggio agrario e alla monocoltura del Prosecco, tanto caro al governatore Zaia e alle multinazionali del vino. Semplicemente perché, con quella specie vegetale venivano realizzate le siepi monospecifiche che cingevano gli spazi di pertinenza dell’abitazione rurale. Siepi da cui si traeva la legna necessaria a “cusinàr” (cuocere i cibi), a “far a’ issia” (lavare i panni) e a “peàr el porzél” (sbollentare e pelare il maiale in fase di macellazione).
Per tutto questo dovremmo erigere all’Acero campestre un monumento, in una delle diecimila rotonde della nostra viabilità. Semplicemente piantandovene uno.