Oggi “Ildiarioonline” propone “Claudio, fiore tra i chiodi“, una storia di Enrico De Zottis, suddivisa in tre puntate nell’arco della settimana, di personaggi veneti immaginari.


Claudio S. Piacere. E sì, avete capito bene – quello dei centri estetici con la S grande dopo Claudio. Nato nel sessantatré, a Conegliano. Proprio lì, al centro di quello che oggi chiamano il ‘miracolo del Nord-Est’. Un miracolo fatto di prosecco e del rumore assordante delle officine metalmeccaniche, un miracolo duro e rumoroso come un martello che ti batte in testa dalla mattina alla sera. Un mondo che sembrava scolpito nella pietra, con regole immutabili: ‘lavora, fa schei, no sta a lamentarte’. E io, in tutto quello…io ero coerente come un fiore cresciuto tra i chiodi.


L’infanzia in provincia di Treviso era come una cartolina d’altri tempi, con le sue domeniche immobili e il profumo di ragù che veniva dalle finestre.

A scuola, i libri erano il mio rifugio dalle chiacchiere dei compagni sui trattori e sui campi. Le matite, i miei migliori amici. Disegnavo, disegnavo sempre.

Non le macchine o gli aerei, ma volti, abiti che sembravano usciti dalle riviste patinate che leggevo di nascosto all’edicola, acconciature che neanche si vedevano in quei paesini dove le donne andavano dal parrucchiere una o due volte l’anno. Poi c’era il calcio. Maria Santa, il calcio. “Claudio, và a zugar a bałon!” – diceva sempre mio padre, con la voce che sembrava un tuono premonitore. No, grazie. Preferivo correre, sentire il vento addosso lungo i fossi, la libertà dei prati ancora non cementificati.

L’atletica leggera, quella sì, mi faceva sentire libero, non impastato di terra e sudore come gli altri. Ma poi la domenica… la domenica il Treviso scendeva in campo, e io allo stadio in tribuna con mio padre, costretto a sentire le urla, gli sfottò, i cori che non capivo. Preferivo di gran lunga le bambole di Chiara, mia sorella. Cinque anni più piccola, ma già la mia complice, la mia migliore amica. Con lei potevo essere me stesso, senza i filtri di un mondo che già mi stava stretto. Le pettinavo i capelli, inventavo abiti per lei e glieli disegnavo. Un piccolo laboratorio segreto di bellezza e immaginazione, nascosto agli occhi di quel Veneto che sapeva solo di fatica e ‘fare schei’.

Già allora, iniziavano i primi piccoli terremoti, crepe sottili nel muro di mattoni della tradizione. Le cene in famiglia, il mio gesticolare un po’ troppo esagerato quando provavo a raccontare qualcosa – “Claudio, sta fermo con le man! Te me par na simmia!” – l’interesse per la moda, per i tessuti, per i colori che non erano il grigio del cemento o il verde dei campi coltivati. E poi… il tempo che passavo a parlare con le ragazze, invece che a giocare con i ragazzi.

E le ragazze mi piacevano, in realtà…ma non per i “motivi giusti”, mettiamola così. Non per la fidanzata da portare a casa, la “tosa per bene”, da sposare per mettere su famiglia. Era un’ombra che si allungava, un silenzio che si faceva sempre più pesante tra me e mio padre. Mia madre, poverina, cercava di tenere insieme la famiglia, ma capiva che era una battaglia persa in partenza, in un contesto dove il ‘maschio vero’ era quello che imbracciava il fucile e la chiave inglese, non le forbici e le matite.

Poi un giorno, mollai la bomba. Il mio personale, devastante assalto. “Voglio fare la scuola da parrucchiere ed estetista”.

Silenzio. Un silenzio di tomba, di quelli che solo i Veneti sanno tenere. Mio padre, la faccia rossa, le vene del collo che pulsavano, i pugni che si stringevano. L’ira. Una furia cieca, come il Piave quando rompe gli argini. “Un mestiere da donne! Cosa dirà la gente? Sei un maschio, Claudio! I maschi lavorano in fabbrica come tuo padre o nei campi come tuo nonno!” Mia madre, la disperazione muta negli occhi, seduta lì, con le mani intrecciate come se pregasse per la mia salvezza. Ma Chiara… ah, Chiara, benedetta fra le donne. Fu lei, con la sua calma testardaggine, a convincerli. “Papà, mamma, è la sua passione! Non vedete come gli brillano gli occhi? Sarà un artista!” E così, quasi per miracolo, mi lasciarono andare. Un po’ per stanchezza, un po’ perché Chiara, in fondo, aveva ragione, e la sua voce in casa aveva un peso che la mia non aveva.

Treviso. La scuola di parrucchiere. Entrai in quel posto e fu come respirare per la prima volta l’aria di montagna dopo una vita passata chiuso in un garage. Non ero più “uno strano”. O meglio, non ero più l’unico ad essere “uno strano”. Eravamo un esercito di ‘strani’, tutti con le forbici in mano, con la lacca nell’aria che sapeva di liberazione, con sogni colorati che andavano oltre le colline e le zone industriali. Le amicizie sbocciarono come fiori di campo dopo una pioggia d’estate, forti e inaspettate. Gente che parlava la mia lingua, che capiva i miei silenzi, i miei desideri. Eravamo un’isola felice, un piccolo paradiso in terra veneta, e da quell’isola, partivamo. Padova, Milano, Bologna. Viaggi di esplorazione e di scoperta. Viaggi di libertà che mi aprivano la mente e il cuore, lontano dalle critiche sussurrate e dagli sguardi di disapprovazione.


Il secondo capitolo di “Claudio, fiore tra i chiodi” verrà pubblicato giovedì 03/07/2025

Enrico De Zottis
Enrico De Zottis Nato a Venezia nel 1987 e cresciuto a Mogliano Veneto, da oltre un decennio si occupa professionalmente di Gestione delle Risorse Umane presso aziende multinazionali. Ad oggi vive e lavora a Lione (Francia). Nel tempo libero si dedica allo studio di tematiche socio-economiche, oltre che alla musica e al trekking. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a Padova e un Master in Analisi Economica a Roma.

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