I GIORNI DELL’IRAN

Oggi non me la sento di usare una penna caustica: troppi luoghi comuni inquinano il nostro metro di giudizio. Mentre piovono migliaia di proiettili micidiali sulla popolazione iraniana, avverto un’amarezza in gola. Non è un’immagine retorica da scribacchino. E non c’entra affatto la politica.

Non so se quel governo di moderni antistorici sàtrapi sia vicino o meno dal possedere l’arma atomica: L’Agenzia per l’energia atomica (Aiea) – l’ente più accreditato – afferma che non ci sono prove di un’imminenza, né che gli iraniani ne prospettino minacciosamente un uso futuro. Pare ripetersi il copione di quanto successe all’Iraq incolpevole di Saddam Hussein: trovare un buon pretesto per giustificare un’aggressione militare esagerata e liquidare un nemico dichiarato che ti sta sullo stomaco.

Non è poi così importante ciò che qualcuno ci vuol far credere: del resto è arcinoto che gli israeliani posseggono un arsenale nucleare mai ufficialmente dichiarato, e non significa che ultimamente siano più raccomandabili.

Ma oggi desidero spostare l’attenzione lontano dagli intrighi militari. L’Iran è un paese molto popoloso, oltre novanta milioni di abitanti. Riflette un’intelligenza rodata e un’energia invidiabili. Al di sopra delle sue contraddizioni infinite, riconosciamo il potenziale di un popolo colto e giovane: oltre metà della gente ha meno di 35 anni ed è urbanizzata al 70%. Intuitivamente, si tratta di un popolo piuttosto informato. Se sono oppressi, com’è vero, da una casta che si fa scudo della fede per tenerli sotto un dominio occhiuto, gli iraniani hanno sempre saputo reagire: sfidando apertamente il regime, ma più spesso conducendo una vita parallela, dove alle pratiche pubbliche, ossequiose per non venir stritolati tra le spire di leggi anacronistiche, fa riscontro una capacità di sopravvivenza privata e libera. Le contraddizioni si sommano ancora: l’istruzione femminile è garantita ed oltre il 65% dei laureati è costituito da donne.

Se riguardo il mio passaporto, riconosco un paio di timbri: correva l’autunno dell’anno 2017 e con mia moglie trascorsi troppe ore al controllo in aeroporto, a Teheran, in fila infinita per entrare in quel paese, fino ad allora mentalmente precluso. Cercavo riscontri tardivi alle pagine di un mio romanzo da poco già pubblicato, che in parte si svolgeva proprio nella capitale persiana, L’illusione che non basta. Stremato dall’attesa e liberato dalle incombenze doganali, finalmente ritrovai le nostre valigie, solitarie e incustodite, nella sala arrivi ed erano intatte.  

L’impatto con la gente iraniana, in seguito fu sempre sorprendente. Mi attendevo un ambiente appesantito e grigio. Riscontrai con gusto una disponibilità diffusa all’accoglienza, istintiva e persino curiosa, senza l’affettazione o la pressione opportunista che assilla i turisti, quando visitano i paesi levantini mediterranei. L’impressione, unita a un senso di pulizia che evidenziava amore per le proprie città, si trasmetteva fino all’erba dei giardini pubblici, curatissima, dove famiglie intere sostavano la sera per ristorarsi dal caldo ancora sostenuto. Non era minimamente percettibile il clima fosco che presagivo; semmai la gioventù debordava ovunque con la propria freschezza. Si potevano trovare facilmente i cambiavalute nelle piazze, all’aperto, col proprio mucchietto dei soldi pronti sui banchetti minuscoli, tra le altri merci del mercato. Stranezza – per noi occidentali prudenti – che smentiva il timore ricorrente di subire dei furti.

Le donne indossavano sempre il hijab sopra i capelli, ma i volti erano truccati con cura seducente. Si stima che 200.000 donne ogni anno si operino di rinoplastica: costrette a non rivelare le forme del corpo, esaltano la propria bellezza, concentrandosi sul viso. E sono oltre 4.000 le case editrici che pubblicano oltre 20 libri l’anno, di cui solo un quinto sono religiosi. Quella iraniana è una civiltà millenaria che ha poco da spartire con la araba.

Le regge antiche rivelano un’eleganza fine, eppure traboccante di preziosità, rilucente di specchi caleidoscopici e persino lampadari di Murano; ti tolgono il respiro le rovine di città come Persepolis: ricorrono i nomi degli imperatori, le imprese imparate a scuola di Dario, Serse, Artaserse, Ciro. Neppure Alessandro Magno, che la saccheggiò, fu in grado di privarla della sua struggente bellezza. Vidi davvero le città da Mille e una notte come Shiraz, contemplai la Moschea del Venerdì a Yazd, i minareti svettanti e foderati di maioliche blu, le colline del Silenzio dove in un passato non troppo lontano gli uccelli si cibavano di morti. La modernità si fa strada nel rispetto del proprio antico passato che non viene rinnegato per assurde incompatibilità religiose, come invece accade ai talebani afghani. Discretamente potei avvicinarmi, con la superficialità di un viaggio organizzato, al misterioso culto di Zoroastro, transitare sui ponti impressionanti di Isfahan… Davvero i tappeti avrebbero potuto prendere il volo. Già, lo ammetto: un soggiorno da cartolina. Davvero troppo poco per conoscere lo spirito di un popolo così complesso. Trovai appena il tempo e il modo di scambiare il mio libro con quello di una giovane amica scrittrice, nella hall di un grande albergo. Lei aveva impiegato un’ora per raggiungermi in auto, attraversando la città con otto milioni di abitanti: mi regalò la sua nuova traduzione, in persiano, di alcune narrazioni della Atwood che non potrò mai leggere, ma mi è preziosa.

Adesso, quando alla televisione vedo cadere le bombe, il magone prende il sopravvento: se hai almeno sfiorato la pelle della gente viva, non puoi considerarla obiettivo militare, o numero buono per contare i caduti di un nemico astratto. Ti si affaccia prepotente la scena del panettiere che spontaneamente offre ai turisti curiosi il Sangak, pane cotto sulla pietra che assomiglia ma non è una pizza: “Onora il pane, il Signore lo ha inviato a te come uno dei suoi doni”, come diceva Maometto.

Basta. Rischio di incartarmi nell’oleografia stucchevole e chiedo compassione: è l’effetto che provoca la percezione di un luogo che si sta sgretolando, di persone normali, famiglie di civili costretti dalla sorte bastarda all’infelicità e al dolore immeritato.

Per conoscere questo paese, almeno il suo carattere meno dozzinale, consiglio di leggere almeno un libro che ho giudicato un romanzo senza età, pur essendo ambientato nei primi anni duemila: Alla ricerca di Hassan. Il volto svelato dell’Iran diTerence Ward (Libreria Editrice Fiorentina). È unviaggio nell’anima di un grande popolo. Immersi nella lettura coinvolgente, potrete sottrarvi alla crudeltà fredda dei notiziari, viaggiare nelle atmosfere dove risuonano in sottofondo i versi antichi e universali di Rumi, di Hafez, di Nizami Ganjavi.  Magari dopo tuffatevi nel celebre Leggere Lolita a Theran di Azar Nafisi (Adelphi) o nella poesia modernissima e stupenda di Forugh Farrokhzâd, una donna carne e sangue, combattiva ed emancipata, mancata prematuramente nel 1967: È solo la voce che resta (Riccardo Condò Editore).  Almeno tra le pagine nulla possono le bombe, il loro micidiale effetto si affloscia e non contano le miserevoli ragioni o i torti. Allora le bombe si riveleranno ancor più nella loro dimensione di mostri alieni, insensibili. Odiosi e disumani.

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

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