Il tasto è dolente. Per paradosso, siamo arrivati al punto in cui bisognerebbe inviare dei nuovi contingenti militari a proteggere e salvare i militi dell’Unifil (La Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite), arroccati nei bunker delle basi militari a sud del Libano, assediati dalla forze israeliane. Eppure quella missione da peacekeeper, promossa in primis dall’Italia e dalla Francia, adottata dall’Onu, aveva proprio il compito di interporsi, per contrastare autorevolmente il conflitto tra gruppi armati e riportare finalmente la pace nel Libano. Intenzione lodevole. Ma andiamo con ordine. Parlare dell’inefficacia endemica dell’Onu sulle questioni di interposizione militare, bloccate da regole d’ingaggio e veti incrociati, ultimamente è come sparare sul pianista. Già in Bosnia avevamo assistito alla difficile situazione in cui si trovano ad operare le forze Onu, a fronte di prepotenti interlocutori. Incapacità risolutiva che si è ripetuta in Somalia e in Afghanistan. In questi giorni tristi anche la missione libanese viene smascherata, nella sua sostanziale inefficacia, dalla brutale presa di posizione di quel falco che è il premier israeliano Netanyahu.
I soldati dell’Unifil sono in Libano dal 1978 con un mandato sacrosanto, deciso dopo la tregua tra contendenti, per allontanare definitivamente il pericolo di reciproche provocazioni tra gli sciti di Hezbollah e gli israeliani. In origine riguardava la verifica dell’abbandono dei territori occupati in guerra da Israele, ma dal 2006 la Risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu 1701 dell’11 agosto 2006 ha dato incarico ad Unifil di svolgere una serie di compiti di vitale importanza e ricordati nel sito ufficiale del nostro Ministero della difesa.
Riassumo i punti essenziali:
- assistere le LAF (n.d.r: l’esercito regolare libanese) nel progredire verso la stabilizzazione delle aree; mettere in atto i provvedimenti degli accordi di TA’IF(n.d.r.: accordi per porre fine alla guerra civile sviluppatasi tra 1975-1990), e della Risoluzione 1559 (2004) e 1680 (2006), che impongono il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano: non deve esserci nessuna arma o autorità che non sia dello Stato libanese, nessuna forza straniera in Libano senza il consenso del Governo; nessun commercio o rifornimento di armi e connessi materiali al Libano tranne quelli autorizzati dal Governo;
- consegna all’ONU di tutte le carte/mappe contenenti lo schieramento delle mine in Libano (Israele).
Il risultato, aldilà di manifestazioni di legittimo orgoglio italico e di qualche risultato nell’appoggio alle forze regolari libanesi nell’addestramento e sminamento, è svuotato oggi della sostanza principale: prevenire la ripresa delle ostilità. Compito precipuo e dichiarato di Unifil e della nostra missione denominata Leonte è dunque quello di mantenere tra la cosiddetta Blue Line e il fiume Litani una area cuscinetto libera da uomini con le armi, strutture e armamenti che non siano quelli dell’esercito regolare libanese, garantendo che non sia utilizzata come base per attacchi di ogni tipo. Recita ancora testualmente il sito del nostro ministero: “I militari di “Leonte” possono reagire con la forza a tentativi di impedire l’assolvimento del proprio compito sotto il mandato del Consiglio di Sicurezza (omissis)”.
Ma questi diciotto anni non hanno scongiurato il recente insediamento degli armamenti Hezbollah proprio nella zona di competenza Onu, prossima al confine con Israele: considerazione facilmente deducibile, visto che proprio da quella striscia sono partiti gran parte dei missili rivolti contro il territorio israeliano. E, a quanto pare, sono stati scoperti dagli israeliani, non segnalati da Unifil e a poca distanza dalle sue basi, almeno un migliaio tra tunnel e siti strategici di Hezbollah.
L’attività delle forze Onu, rappresentate per l’Italia da circa un migliaio di uomini e mezzi corazzati con compiti di responsabilità, su un totale di circa 10.000 unità, riflette le debolezze strutturali del mandato: i militari possono affiancare l’esercito regolare libanese, possono pattugliare e osservare ma non sono autorizzati a disarmare autonomamente Hezbollah o chicchessia.
L’arrogante premer israeliano ne ha tratto le conseguenze e pretende oggi, con strafottenza, che le forze Unifil si ritirino dalla zona occupata: per lui costituiscono esclusivamente un impiccio inutile, certo non la salvaguardia votata favorevolmente a suo tempo alle Nazioni Unite dallo stesso governo israeliano. I colpi rivolti, diciamo per celia “incidentalmente” contro le basi ONU, sono l’argomento tangibile per giustificare la richiesta di allontanamento dei militari; si tratta di un consiglio” minaccioso, col pretesto di cautelare le vite dei militari. Evidentemente non è ammissibile assecondare nel suo delirio di onnipotenza Netanyahu e non solo per questioni di prestigio. Intanto l’esercito israeliano ha buon gioco nell’umiliare le forze delle Nazioni Unite, confinate così come sono nelle proprie basi, magare a lavare i candidi, quanto inutilizzabili mezzi militari, buoni ora solamente per esibizioni da parata.
Lo stato israeliano, oggi pericolosamente aggressivo, si sta facendo terra bruciata anche presso coloro che fino ad oggi hanno condiviso il principio della sua giusta incolumità. Se la corda è tirata con l’Europa, rischia di spezzarsi anche la silente connivenza di quei paesi arabi, fino ad ora rispettosi dei cosiddetti accordi di Abramo e simili (Emirati arabi, Bahrein con la mediazione di Stati Uniti). Israele non può confidare all’infinito nella propria isolata capacità di dissuasione e la pentola a pressione sta per esplodere.
A questo punto c’è da chiedersi chi mai potrà salvare le popolazioni civili libanesi, già martoriate da decenni di guerre civili, da questo ennesimo deflagrare del mostro bellico che ha già divorato 43.000 vite.
Il leader israeliano scherza col fuoco: sfrutta la circostanza che il gigante americano è (comunque colpevolmente) immobilizzato dall’imminenza delle proprie elezioni e non decide nulla di fattivo. Se poi venisse eletto Trump, l’esercito israeliano avrebbe spianato il terreno. Ricordiamo che fu proprio Trump ad avallare lo spostamento, significativamente irritante, della capitale ebraica a Gerusalemme.
Nel frattempo il popolo d’Israele tutto è coinvolto in una situazione a dir poco di imbarazzo: irrisolta la questione degli ostaggi, affonda in una guerra a trecentosessanta gradi. Risuonano ancora macabre le parole di David Azoulai, soprattutto in quanto sindaco ebraico della città di Metulla, al confine con il Libano. Le pronunciò in un’intervista di dicembre scorso: «L’intera Striscia di Gaza deve essere svuotata. Rasa al suolo. Come Auschwitz. Facciamone un museo perché tutto il mondo veda cosa Israele può fare. Dovrebbe assomigliare al campo di Auschwitz». La storia del novecento non ha insegnato nulla, se le vittime aspirano a divenire carnefici. Il popolo israeliano nel suo insieme, normalmente intelligente e sensibile, non può accettare di accollarsi un marchio così orribile.