Mastrolindo politico

Non mi sarei mai sognato di comprarlo e non l’ho fatto. Eppure ero tentato di leggerlo, quel libro, perché odio i sentito dire che diventano veicoli di malegrazie, fake news, e talvolta di ingiustizie di cui vantarsi nei social. La censura è pur sempre una sconfitta dell’intelligenza. Dunque mi trovavo in quel di Brunico/Bruneck per la presentazione del mio nuovo romanzo biografico Il mite caprone rosso, sulla vicenda umana dello sfortunato poeta norbert c. kaser (scritto in minuscolo come preferiva lui): un percorso a ostacoli, quello suo, prematuramente interrotto. In un certo senso ci riguarda, non fosse altro, per le sue critiche alla società consumista che talvolta lo avvicinano anche a Pasolini.

Così, in attesa di recarmi nella sontuosa biblioteca comunale ad esso intitolata, la LibriKa – 4 piani luminosi e una quindicina di dipendenti – ho fatto un salto in una nota libreria. A suo tempo kaser aveva subito un vero e proprio linciaggio morale popolare, sostanzialmente per aver affermato che, in letteratura, era tempo di smetterla con le lagne crepuscolari della terra tedesca perduta: le cosiddette Heimatslieder (poesie sulla patria) erano stantie. Del resto avevano buone ragioni di lamentarsi del fascismo, i sudtirolesi, gabbati anche dai nazisti. Ma kaser era un giovane nato dopo la guerra. Pensava da europeista e guardava avanti. Si ispirava a modelli che solo dopo sarebbero stati riconosciuti come dei classici: tra le mille e mille letture aveva divorato Brecht, Grass, i russi, la letteratura mitteleuropea, gli americani alle base del beat e nelle traduzioni spaziava da Franco Fortini a Leopardi, da Saba ad Ungaretti.

Un bel giorno si era permesso di sostenere in pubblico che era tempo di spennare e mettere allo spiedo l’aquila tirolese e che oltre il 90% degli autori locali sarebbe stato meglio non fossero mai nati. Apriti cielo! Eran tempi brutti, quelli della fine degli anni sessanta. Epoca di terroristi dinamitardi. Lui, sudtirolese – che criticava la letteratura di casa – venne subito tacciato di essere un becero provocatore politico filoitaliano. La sua croce perenne: il passaparola falsato lo aveva danneggiato, al punto da considerarlo un degenerato contro cui si potevano inviare decine di lettere minatorie, scrivere articoli puntuti. Gli si negava il saluto per strada, sputando per terra quando passava.

Torniamo…a bomba. In libreria mi è passato per le mani il Mondo all’incontrario di quel generale prestato alla scrittura che adesso è in lista dappertutto per la Lega e capolista in due su cinque circoscrizioni. Insomma il libro di quel Vannacci che – di fatto – rappresenterà il credo della nuova Lega secondo Salvini e, per esigenze di scuderia, anche di quella veneta. Lo devo nominare, obtorto collo, anche se sono consapevole che così intensifico la curiosità verso di lui. Del resto, salvo improbabili (e augurabili) defezioni “ci” rappresenterà in Europa.

Un’occhiata al libro mi è parsa doverosa, quantomeno per rigetto alla censura a priori. Mi è bastato aprire a caso il libro e cosa trovo? Cito testualmente da pagina 135, ma le sottolineature in grassetto, di stupore, sono mie:

“In una famiglia, per dirla semplicemente, c’è chi comanda, i genitori, e c’è chi esegue, i figli. Per quanto contestato sia il modello gerarchico, è proprio la Natura che lo ha imposto dalla notte dei tempi allo scopo di evitare che giovani ed inesperti esseri, se lasciati a loro stessi, andassero incontro a morte prematura. Ogni rivoluzione, tuttavia, ha cercato di modificare radicalmente questa impostazione delegittimando o commissariando l’autorità genitoriale. Citavo prima la Cambogia di Pol Pot, dove i Khmer rossi avevano provato a dare il potere ai bambini sottraendoli alle loro famiglie con i risultati disastrosi che solo qualche sparuto testo o documentario hanno divulgato.”

Vi risparmio le altre considerazioni che non potrei porgervi, perché ho riposto il libro al suo posto. Disgustato. Preoccupato. Questa è dunque la visione di un sedicente filosofo della gerarchia familiare. Figurarsi che idea avrà di società. Così, in famiglia, o si pratica l’autoritarismo “naturale”, magari usando la cinghia o una cella di rigore per i figli disubbidienti, o si rischia che diventino bestie assassine come nelle mani dei Khmer rossi oppure, magari, bimbi sodato ugandesi. Un simile modello, buono per una società guerresca e violenta, mi spaventa assai. È una concezione della famiglia caserma: sparisce la dolcezza delle mamme o anche dei buoni maestri che educano con l’esempio, i don Milani che si prendono cura degli umili, i metodi orizzontali Montessori, i padri che pazientemente attendono di notte i figli e le figlie – quando è ora – fuori dai locali da ballo, eccetera. Sparisce anche la necessaria maturazione che può fare una ragazza o un ragazzo, percorrendo un proprio spazio di libertà in cui sono ammessi anche gli errori, purché veniali, come momento di crescita. Consiglio la lettura, appagante, di Tutti presenti di Silvia Battistella (Erikson – 2023). Una figlia o un figlio vanno assistiti, non comandati, salvo casi eccezionali. Ci vuole pazienza, si sa: è meno comodo ma produce frutti sani e duraturi. Invece qui c’è la rappresentazione plastica di una società rigida, dove tutto è bianco o nero, anzi un bel nero o un rosso cupo (non mi riferisco alla fede calcistica). E chi lo dice, poi, che la famiglia “naturale” sia naturalmente la sola guida sicura? Purtroppo gli esempi di devianza, i soprusi sessuali consumati verso i minori all’interno delle mura domestiche, le condizioni di una società schiacciasassi, l’ignoranza o la pura cattiveria obbligano a offrire anche al di fuori del nido delle opportunità complementari di maturazione e crescita sana. La famiglia veneta in genere è un buon esempio di mediazione, forse un poco troppo chioccia, ma in genere capace di assicurare un metodo abbastanza sereno di educazione.

Il generale, capolista di una Lega trasformatasi in una stampella alla destra estrema, crede di dire pane al pane e vino al vino: piacerà a chi ama le scorciatoie, a chi preferisce l’uomo o la donna che decide da sola e gli altri ubbidiscono ad ordini che non si discutono; piacerà a chi vuol sottrarsi dalle decisioni e dalla propria responsabilità. Il generale porterà in Europa, quasi sicuramente eletto, il messaggio di un’Italia che non mi appartiene. Brutale e schizofrenica, difensiva e chiusa. Robaccia.

Penso al mio poeta sconosciuto di Brunico, indisciplinato verso i potenti, tenero esempio di dedizione ai suoi piccoli alunni delle pluriclassi in montagna. Educatore in senso orizzontale, disponibile a collaborare e ad arricchire le esperienze nel territorio. La democrazia prevede un continuo interscambio. È scomoda per chi preferisce una società autoritaria.

Penso a quegli illusi che si affidano unicamente all’uomo a alla donna della provvidenza, una specie di forzuto Mastrolindo anni ’80, valido per la pubblicità di un detersivo che risolve tutto. In politica è un altro film. Sottrae ai cittadini il costante potere di controllo. Essi firmano di fatto un assegno in bianco, in fiducia, a qualcuno che non sarà costretto a fare i conti con chi lo ha rilasciato, salvo che nei rari momenti elettorali, se e quando e come verranno. Già ora si gettano le basi per contenere la critica necessaria: la Rai 3 televisiva appare “depurata” da molti giornalisti scomodi, il Tg 1 edulcorato, il Tgr regionale è la passerella dei successi di Zaia e delle statistiche (ossessivamente positive) sul turismo. La pista di bob a Cortina vista come un puntiglio necessario al prestigio e all’economia: cascami pretestuosi di potere.

Penso al mio poeta che per tutta la sua breve vita ha protestato contro il pericolo che corre la democrazia e le manifestazioni di un tradizionalismo retrivo a cui strizza l’occhiolino la destra o ora, con superbia, anche la Lega. Diceva kaser, in altro contesto, riferito ad un’associazione passatista – calzante rispetto al momento che viviamo:

“Si deve trovare in una ben triste situazione la nostra terra, se davanti ai cancelli della nostra cultura deve stare di guardia gente simile e pure venir fotografata, non meno triste è che nessun’altra associazione abbia e usi una tale copertura politica alle spalle.”

Una riflessione si impone. Se non è gradita, resta ai lettori la possibilità di fare zapping su un canale o articolo di distrazione. A piacere.

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

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