Attenti a quel funerale: una risata potrebbe seppellire anche voi

Tortuosi sono i percorsi dell’anima che portano un espatriato (emigrato, profugo o esule che sia) a confrontarsi con il Paese di origine e la vita precedente. La resa dei conti con sé stessi, quello che si era, quello che si è lasciato, luogo compreso, presto o tardi arriva. Non conosce regole prestabilite. Anche i tempi di elaborazione variano in base a un orologio interiore non omogeneo. Di certo, influiscono le circostanze e il momento dell’abbandono. Se scappi dal disastro sociale e economico provocato da una guerra devastante, e sei giovane, il tuo tasso di spirito critico ma anche la tua lucidità di analisi sono probabilmente maggiori. Se, poi, hai la ventura di essere anche un bosniaco, i tuoi cinque sensi ne escono acuiti e incrementati – osservazione che non teme smentita – di uno molto specifico: il senso dell’umorismo. Detto altrimenti: la capacità sconfinata di esercitare la nobile arte dell’ironia. Una caratteristica talmente radicata in Bosnia, forse più che altrove nei Balcani, da impressionare quel poeta straordinario che era Marko Vešović – montenegrino di nascita ma sarajevese d’adozione, scomparso l’anno scorso – fino a fargli dire nel suo indimenticabile “Chiedo scusa se vi parlo di Sarajevo”, pubblicato nel 1994 durante l’interminabile assedio serbo alla città: “I sarajevesi che hanno la forza di scherzare anche con le proprie ferite sono persone in grado di sovrastare la propria sofferenza come da un piedistallo e di valutare dall’alto il senso dell’esistenza umana”. Un’osservazione che ci sentiamo di confermare, ricordando ad esempio due autori presentati di recente su queste colonne, come Elvira Mujcić e Božidar Stanišić. Nelle loro opere l’ironia veleggia con il vento in poppa, libera, ora garbata ora caustica, mai fuori posto, fra le onde di una prosa che lambisce drammi epocali, concentrandosi prevalentemente sul percorso problematico dell’essere umano.

Sladjana Nina Perkovic

Nel caso di Slađana Nina Perković, e del suo romanzo “Il funerale di zia Stana” (Voland, Roma, aprile 2024, pp.215, euro 19,00, in uscita ufficialmente il 5 di questo mese), l’umorismo è però qualcosa di più di un efficace ingrediente stilistico. È calce viva. È la malta letteraria con cui vengono cementati e cesellati i mattoni dell’intero edificio narrativo. Un elemento onnipresente e imprescindibile, che conferisce al racconto della scrittrice serba nata a Banja Luka nel 1981, andata a studiare e a fare la giornalista in Francia e poi tornata a vivere e a lavorare a Belgrado, un timbro inconfondibile. L’ humus espressivo nel quale si muove con convincente disinvoltura potrebbe trovare un parallelo cinematografico nelle pittoresche atmosfere e nelle picaresche assurdità dell’Underground di kusturiziana memoria.

L’apparenza, tuttavia, rischia di ingannare. Il libro proposto dalla Voland per la collana “Amazzoni”, nell’ottima traduzione di Marijana Puljić, non vuole semplicemente divertire stupendo o scandalizzando, o persino provocando, noi paladini benpensanti e politicamente corretti della civiltà occidentale mediamente sospettosi di tutto ciò che ci arriva dalla ex Jugoslavia. Con un supplemento di diffidenza in molti, peraltro, quando la matrice sia serba. Storicamente e politicamente parlando, conosciamo e ci ricordiamo ancora abbastanza bene delle sofferenze patite dai musulmani bosniaci – gli aggrediti – nella lunga guerra degli anni Novanta del secolo scorso. Cosa sappiamo invece dei serbo-bosniaci asserragliati nella loro repubblichetta etnica decisa a Dayton? Praticamente nulla, se si eccettua la nomea di “popolo cattivo” che da sempre li accompagna in quanto aggressori. Brutale semplificazione, che non tiene conto della realtà complessa dei matrimoni misti, dell’incrocio spesso riuscito tra fedi e culture differenti, dei tanti “giusti” che si opposero alla pulizia etnica contro gli amici musulmani o croati, pagando la loro coerenza anche con la vita. Facile ritenerli tutti seguaci, per una sorta di automatico rimando, di conclamati criminali di guerra oggi in carcere, come Karadzić e Mladić.

La memoria di una guerra sciagurata e insensata, nel romanzo di Slađana Perković, resta giustamente sullo sfondo. Lei era poco più di una bambina all’epoca. Quel che le interessa è invece guardare in faccia il suo ex Paese così come oggi ancora si presenta. Impaurito, insicuro, contraddittorio, folcloristico, arretrato. E se solo riusciamo a strappare la maschera di chiassosa e divertente commedia balcanica che avvolge buona parte della narrazione, scopriremo una storia appassionata di amore-odio per una terra che l’autrice ha abbandonato, come migliaia di altri suoi coetanei negli ultimi decenni, prima di farsi risucchiare nel limbo dell’attesa della “grande occasione” per sfondare nella vita. Di quel treno, cioè, che non passa mai se non per pochi fortunati, beneficiati con briciole di benessere in cambio di una fedele remissività. Ripagati con frustranti elargizioni di stampo campanilistico-mafioso in una società malata, ai margini della modernità, che sopravvive di corruzione e sussidi. Gli eterni capisaldi del potere di incanutite e ringhiose leadership ultra-nazionaliste, ondeggianti fra sogni secessionistici mai sopiti e un europeismo di maniera, fragile velo a un verace filo-putinismo.

La trama del romanzo ruota attorno al funerale di zia Stana, morta banalmente in uno sperduto borgo sulla collina per un pezzetto di pollo andatole di traverso, e si dipana attraverso gag a mitragliate, continui colpi di scena, suggestivi cerimoniali e epiche liturgie conviviali della più pura tradizione serbo-ortodossa. La tensione è mantenuta elevata da spassosi e rocamboleschi imprevisti. Fra questi, spicca la tragedia sfiorata del mancato suicidio – per impiccamento al lampadario del bagno – dell’inconsolabile zio Radomir fresco di vedovanza, caricato sul sedile posteriore della mitica “Golfetta” (la Golf II tanto popolare in Jugoslavia negli anni Ottanta) dell’irritabile cugino Stojan, “sopra la cassa di mele marce”, e trasportato d’urgenza all’ambulatorio medico del paese vicino. Un posto più simile a un logoro ospedale da campo che a un moderno pronto soccorso, dove tutto e tutti agiscono sopra le righe. Dove la rispettata matriarca zia Mileva, che ha guidato sin lì l’eccitata carovana di soccorritori, finisce per venire alle mani con una sgarbata infermiera, che nulla ha della meravigliosa crocerossina pronta a innamorarsi e a immolarsi per l’eroico protagonista di un racconto di Hemingway, ci scherza su Slađana. “Io non sono Hemingway. Guardando realisticamente le cose, per lo più faccio solo da comparsa nel mio racconto personale”, fa dire all’io narrante, una giovane trentenne senza ideali e concreti obiettivi da raggiungere, interessata unicamente a tornare a casa in tempo per non perdersi l’ultima puntata del suo amato serial tv poliziesco. Una figura che tanto ci ricorda gli irrecuperabili “sdraiati” dipinti da Michele Serra.

La protagonista senza nome ci parla, curiosamente, da una fossa fangosa nella quale è accidentalmente scivolata e giace per l’appunto sdraiata (U Jarku, “Nella fossa”, è anche il titolo originale del romanzo). Da qui ricorda, racconta, rielabora, ironizza, filosofeggia, descrivendo fatti, misfatti, caratteri, aspetto, profili, scelte, destini, dei numerosi parenti accorsi al funerale di zia Stana, accomunati fra loro – al di là di un ipocrita vincolo affettivo con la defunta – soltanto dal cruccio ossessionante di non riuscire più a vendere una casa marchiata dall’infamia di un suicidio domestico. Di perdere, quindi, pochi ma preziosi spiccioli che fan comodo a tutti in tempi tanto grami.

La scenografia dell’assurdo è un trampolino perfetto per consentire a Slađana Perković di guardarsi attentamente dentro, e attorno a sé, come spiega molto bene nella postfazione Marijana Puljic, osservando che “l’autrice si è basata su fatti realmente accaduti combinandoli con una riflessione su come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato a vivere in Bosnia-Erzegovina”. È solo con la lente dell’introspezione che il lettore può riuscire a decifrare cosa si cela dietro la rumorosa impalcatura narrativa elaborata dalla scrittrice serbo-bosniaca. Intelligente, spiritosa, dissacrante, rivoluzionaria quanto basta per poterci implicitamente avvertire, prima di iniziare a leggere “Il funerale di zia Stana”, che “una risata vi seppellirà”.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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