Vivere in uno Stato che esiste sulla carta ma non (più) nella realtà, e dal quale ti aspetti di essere garantito e protetto nei tuoi diritti di cittadino. Oppure: non voler vedere la realtà del nuovo Stato che l’ha sostituito, in quanto ti ostini – o vieni indotto – a credere di trovarti ancora in quello precedente, e continuare a trascinare la tua esistenza in un continuo e ambiguo “doppio piano” nel rapporto con i pubblici poteri. Il Kosovo sembrerebbe un set perfetto per ambientare un esilarante “Truman show” in versione balcanica, ma qualora una Metro-Goldwyn-Mayer dovesse ispezionare il territorio per organizzare le riprese, fatto un rapido sopralluogo, vi rinuncerebbe subito. Al massimo, troverebbe spunto per un bel documentario di genere neuro-politico, attingendo a piene mani a un ricco vivaio di storie e testimonianze vere, verissime. Non ci sarebbe bisogno, infatti, di attori, di replicanti, di doppi sensi, di incroci fra il fantastico e il realistico, per rappresentare un’anomalia assai concreta, impossibile altrove. Fra i due popoli che rivendicano come loro esclusivo lo stesso suolo, la finzione di ignorare totalmente l’esistenza e le aspettative dell’altro, copre una realtà di rancori incrociati che rischia di esplodere in qualsiasi momento, come la cronaca ha documentato di frequente negli ultimi anni. Il rifiuto è reciproco: Belgrado e la locale minoranza serba (centomila persone su un milione e ottocentomila abitanti, asserragliate quasi tutte nel Nord, attorno a Mitrovica) non riconoscono le istituzioni del Kosovo, dichiaratosi indipendente il 17 febbraio 2008. La schiacciante maggioranza albanese, o quanto meno il governo nazionalista di Pristina, non ne vuol sapere di concederle una larga e rassicurante autonomia. In mezzo, a dividere i contendenti, un contingente di quattromila soldati della Nato, braccio armato di una comunità internazionale incapace di offrire una soluzione condivisa a due nazionalismi opposti e inconciliabili.

Ma, se la realtà – come è tipico da queste parti – supera la fantasia, ciò non significa che l’immaginazione non possa trarre interessanti spunti creativi dal reparto psichiatria più affollato della recente storia europea. A Elvira Mujcic, con il suo ultimo romanzo “La buona condotta” (Crocetti Editore, 2023, pp. 227, euro 18,00), il gioco di farci meditare e insieme sorridere su serissime questioni che complicano la vita a migliaia di persone fino a paradossi da noi inconcepibili, riesce alla perfezione. Ispirandosi a un fatto realmente accaduto, l’autrice ambienta nel 2012 il donchisciottesco progetto di Miroslav (che significa “colui che onora la pace”), un tranquillo e stimato medico di etnia serba, che grazie al suo equilibrio, e diciamo pure a una buona condotta professionale e sociale universalmente riconosciutagli, viene candidato dai maggiorenti del paese a sindaco di Šumor. In questo angolino nascosto del profondo Sud kosovaro, gli albanesi sono 1362, i serbi 1177. Minoranza, dunque, ma non risicata, e lui ha dunque buone probabilità di raccogliere il voto bipartisan dei residenti proprio per le sue posizioni ri-concilianti, tese al rispetto dei paritari diritti di entrambe le comunità. Niente supremazie, niente prepotenze.

Non certo una passeggiata, è facile intuirlo, ma un’autentica microrivoluzione politica e culturale in un territorio pesantemente inquinato dall’estremismo nazionalista. La missione di Miroslav, uomo ben educato con scarsa propensione alla demagogia e al populismo, è come piantare un fiore su un campo minato e cercare di innaffiarlo tutti i giorni con pazienza e tenacia per non farlo appassire. Anche a costo di lasciarci un braccio, una gamba, o tutto il resto. Non gli giova un passato da profugo in Germania negli anni Novanta per sottrarsi alla “leva patriottica”, motivo di diffidenza nei suoi confronti da parte dei connazionali più oltranzisti, con i quali non ha mai condiviso entusiasmi, frustrazioni e neppure un bicchiere di rakija all’osteria gestita da Božo. Sicchè, quando decide di correre per le elezioni municipali indette da Pristina, dalla lontana Belgrado viene posto subito il veto. L’ex stato-guida della Jugoslavia di Tito, che non vuole rinunciare a una sovranità sia pure nominale sulla provincia persa nel 1999 dopo la guerra con la Nato, invia, in contrapposizione al medico “traditore” della causa serba, un sindaco-ombra, nelle vesti del baldanzoso Nebojša (“colui che non ha paura”). A questo ex galeotto liberato per buona condotta e presunti “meriti patriottici,” viene affidato il preciso incarico di dirottare su di sé i favori della locale comunità serba, divisa fra i nostalgici del predominio che fu e chi è stanco di una vita soffocata nella trincea etnica e sogna soltanto un po’ di normalità.

Come andrà a finire? Come ne usciranno i due duellanti, in quella che, nella prosa incalzante e ironica di Elvira Mujcic, ci appare come una lotta impari fra passato e futuro, realtà e sogno, sfida al cambiamento e rassegnazione a uno svilito presente? Quale delle due “buone condotte” è destinata a prevalere, quella del mite neo-sindaco Miroslav o del furbo rivale Nebojsa? Attorniati da un contorno di personaggi scolpiti dall’autrice con accurata precisione caratteriale, i due contendenti ci accompagnano in un appassionante viaggio dentro la psicologia contorta di questa parte dei Balcani ex jugoslavi rimasta ibernata sulle frequenze degli anni più bui della guerra. Da bosniaca cresciuta in Italia, dopo esservi riparata giovanissima con la parte della sua famiglia scampata alla pulizia etnica ordinata dai Karadžic e dai Mladić sostenuti da Belgrado, Mujcic sa come catturare l’attenzione del lettore italiano senza appesantirlo, e soprattutto senza farlo perdere nel labirinto delle paranoie nazionalistiche intellegibili solo a chi è nato nei Balcani occidentali e ne ha inspirato la contorta complessità. Ne “La buona condotta” risuonano qua e là frequenti e sarcastici riferimenti al mito della “Grande Serbia” cavalcato da Milosević per legittimare la sua strategia guerrafondaia a difesa dell’identità serba “minacciata” nella morente Jugoslavia. Come pure non mancano le battute sull’ossessione tutta serba che vede nel Kosovo la “culla” religiosa e culturale della nazione, germogliata all’ombra dell’epica sconfitta subita alla Piana dei Merli (Kosovo Polje) nel 1389 dai serbi contro gli ottomani, ma tramandata ai posteri come una grande vittoria morale. Tuttavia, per farci comprendere fino in fondo il paradosso che incatena oggi il Kosovo a un passato mai finito, la scrittrice italo-bosniaca cita una barzelletta molto in voga alla radio. “Un poliziotto chiama il collega e gli dice: ‘Ho preso il ladro che inseguivamo da tempo’. Il collega gli risponde: ‘Ottimo, dimmi dove sei, ti mando rinforzi, non lasciarlo andare’. ‘Eh, in realtà lui dice di essere il poliziotto vero e non lascia andare me’.” Chi lo sa. Magari la Metro-Goldwyn-Mayer potrebbe partire da un aneddoto così per l’impalcatura di un amaro ma sicuramente spassoso “Truman serbian show”.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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