L’urgenza di uscire dall’uso delle fonti fossili non può cancellare l’urgenza   di fermare la perdita di “biodiversità”. A tal proposito i moniti, autorevoli e documentati, sono innumerevoli. Il Generale Raffaele Manicone del Raggruppamento Carabinieri Biodiversità ha lanciato l’allarme: “la velocità nell’estinzione delle specie a causa delle attività umane e’ tra le 100 e le 1000 volte superiore rispetto al passato e il degrado di specie, habitat ed ecosistemi mette  a rischio non solo il  futuro ma anche il presente, quella in corso e’ la “sesta estinzione di massa” e  si sta consumando in pochi secoli, mentre la “quinta estinzione di massa” (quella dei dinosauri) avvenuta 66 milioni di anni fa si completò in 300.000 anni”.

Secondo l’Onu il pianeta sta perdendo 4,7 milioni di ettari di foreste ogni anno: 1 milione di specie animali e vegetali rischia di scomparire. Al Parlamento europeo si sta discutendo la “legge europea per il ripristino della natura” (Nature Restauration Law) che si prefigge   di raggiungere, entro il 2030, il ripristino del 20% della superficie terrestre e marina dell’Unione Europea con l’obiettivo di contrastare la perdita di biodiversità. Infine, l’ultimo Rapporto IPCC indica l’obiettivo di triplicare entro il 2050 le foreste europee per fermare il riscaldamento globale a 1,5 gradi. La sequenza di queste informazioni, basate su evidenze scientifiche, dovrebbe far riflettere quello che io definisco “l’ambientalismo di sistema” che avalla l’utilizzo delle aree naturali e agricole per produrre energia elettrica dal fotovoltaico e dal vento   e non pretende, a tale scopo, l’utilizzo delle superfici artificiali (tetti, piazzali, parcheggi, aree dismesse, ecc.) per sfruttare “a gratis” l’energia del sole.

L’Ispra nel rapporto del 2021 stimava che utilizzando 700 km2 dei 3481 km2 della superficie totale degli edifici ricavabile dalla carta del suolo consumato 2020 si potrebbero produrre con il fotovoltaico tra i 59 GW e i 77 GW.  “L’ambientalismo di sistema” avallando grandi impianti eolici e fotovoltaici da parte di grandi compagnie su aree agricole e aree verdi, inoltre, ostacola l’affermarsi di un “nuovo modello di approvvigionamento democratico” di energia basato sull’utilizzo, almeno per quanto riguarda il fotovoltaico, dei tetti degli edifici industriali, commerciali e residenziali che favorirebbe la costituzione fra associazioni di quartiere, aziende e singole famiglie di “comunità energetiche”. Le “comunità energetiche” condividendo la produzione di energia dal sole all’interno dello stesso territorio, riducono la dipendenza dalle grandi compagnie e dalle fluttuazioni del mercato internazionale dell’energia.

Secondo uno studio dell’Enea del 2023 per sopperire ai fabbisogni energetici dell’intero “patrimonio residenziale italiano” basterebbe realizzare pannelli fotovoltaici sul 30% dei tetti a uso abitativo del Bel Paese.

Di questo quadro, lucido e preoccupante per alcuni aspetti, ma razionalmente gestibile nella sua complessità (homo sapiens?), non c’è traccia in una trasmissione del 16 dicembre su Canale 5 che affronta il tema delle rinnovabili.

Durante la trasmissione va in onda un collegamento con il “Comitato per la tutela del crinale mugellano” che si oppone al Parco Eolico in quel luogo pieno di valori naturalistici. Un Comitato che sta lottando, Davide contro Golia, per fermare i lavori necessari per l’installazione di 7 pale eoliche issate su  piloni alti 150 metri conficcati su una platea di ferro e cemento e  tanti  micro pali che scendono in profondità nel  terreno (dove c’è l’acqua) e  che comporterà cementificazione, dissesto idrogeologico futuro e una deforestazione di decine di ettari di bosco per ospitare  il cantiere  e le strade per far transitare enormi gru per il trasporto di quei piloni provenienti  dalla Cina (lavoro cinese e CO2 per produrli e trasportarli). Insomma, una devastazione e una frammentazione di un “ecosistema”, necessario, oltre che alla “conservazione di biodiversità”, all’adattamento e alla mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici grazie ai suoi servizi ecosistemici: cattura della CO2 da parte della foresta, assorbimento dell’acqua da parte delle radici degli alberi, prevenzione del dissesto idrogeologico.

Durante la trasmissione risultano sgradevoli il tono di sufficienza e le espressioni di mal celata derisione con cui vengono accolte dal conduttore e dai suoi ospiti in studio le parole accorate espresse dalla esponente del “Comitato per la tutela del crinale mugellano” a difesa della biodiversità dell’area e in particolare di due importanti bioindicatori (una specie di gambero d’acqua dolce e l’aquila reale).  Poi la trasmissione si conclude virando attorno   allo “stereotipo consumistico-energivoro” di moda anche fra i vertici di alcune associazioni ambientaliste: le rinnovabili devono crescere costi quel che costi e chi non è d’accordo è un egoista ed è addirittura corresponsabile dell’uso protratto delle fonti fossili.

Ai telespettatori che volevano capire le ragioni dei sì e le ragioni del no al progetto è stata confezionata una semplicistica, faziosa e riduttiva rappresentazione sulle scelte da fare, soprattutto riduttiva della “complessità” della “transizione energetica” che deve necessariamente essere anche una “transizione ecologica”. Mi domando quale   opinione può essersi fatto un normale cittadino senza alcuna conoscenza della materia? Quanto è rimasto fuori da quel racconto televisivo monocorde? Tantissimo. È rimasta fuori, oltre al pluralismo dell’informazione e alla sua completezza, la parte più importante ed essenziale per una “narrazione compiuta” delle scelte che deve operare la politica in tema di energie rinnovabili: con quali criteri scegliere le aree per produrre energia rinnovabile senza compromettere gli altrettanto indispensabili servizi ecosistemici. Un tema che la trasmissione e il variegato parterre di politici e “ambientalisti di sistema” (compresa Europa verde e Legambiente) si son ben guardati dall’affrontare.  Ma ricordo a costoro che la lotta per la sopravvivenza della vita sul pianeta non può essere disgiunta dalla salvaguardia di ciò che di più prezioso ci resta: la terra nelle sue estensioni non antropizzate.

Dante Schiavon
Laureato in Pedagogia. Ambientalista. Associato a SEQUS, (Sostenibilità, Equità, Solidarietà), un movimento politico, ecologista, culturale che si propone di superare l’incapacità della “classe partitica” di accettare il senso del “limite” nello sfruttamento delle risorse della terra e ritiene deleterio per il pianeta l’abbraccio mortale del mito della “crescita illimitata” che sta portando con se nuove e crescenti ingiustizie sociali e il superamento dei “confini planetari” per la sopravvivenza della terra. Preoccupato per la perdita irreversibile della risorsa delle risorse, il “suolo”, sede di importanti reazioni “bio-geo-chimiche che rendono possibili “essenziali cicli vitali” per la vita sulla terra, conduce da anni una battaglia solitaria invocando una “lotta ambientalista” che fermi il consumo di suolo in Veneto, la regione con la maggiore superficie di edifici rispetto al numero di abitanti: 147 m2/ab (Ispra 2022),

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