Mentre siamo seduti sul divano passano le immagini televisive dei Tg che ci aggiornano sulla rappresaglia israeliana a Gaza.  Si perde il conto della carneficina in corso. Alla crudeltà criminale di Hamas, il governo di Nethanyau risponde con una violenza senza precedenti.

Questo non è un tipo di guerra, comunque sempre insensata, che si combatte tra eserciti e con regole tradizionali, nel limite che può avere la definizione-. I cosiddetti “effetti collaterali” calcolati ci presentano un’umanità cinica, dove “l’etica della guerra” moderna, se mai quest’ossimoro potesse avere un senso, travalica le ragioni di chi è stato offeso e sconfina nel mondo ctonio (sotterraneo), dove si perdono i riferimenti alla logica, men che meno i presunti valori.

Ad oggi (la statistica è in aggiornamento) sono morti poco meno di diciannovemila palestinesi, di cui circa 5.000 bambini e 444 soldati israeliani. Assume dimensioni bibliche la vendetta per l’assassinio dei poveri ragazzi al rave party e l’assalto ai kibbutz di Reim con le oltre 1400 vittime e il ratto degli ostaggi.

Ho voluto immaginare, in un conteggio macabro che testimoniasse le proporzioni, in un modo che scalfisse l’abitudine televisiva alle cifre, a non stupirci più, di quanto sangue si è già disperso in questa mattanza: all’incirca sono circa 93.000 litri.  Fa schifo questa statistica, vero? Senza contare quello dei feriti: le bombe falcidiano mani, gambe, occhi e questo conteggio lo conoscono solo i medici e gli infermieri coraggiosi che resistono a Gaza.

Nell’orrenda scena si sono violati tutti gli accordi internazionali: anche la protezione degli ospedali, secondo la Convenzione di Ginevra del 1949 e i Protocolli aggiuntivi del 1977. Ai sensi dell’articolo 18, infatti, “gli ospedali civili che si prendono cura di feriti e malati, di infermi e casi di maternità non possono in alcun caso essere oggetti di attacco, ma devono in ogni circostanza essere rispettati e protetti dalle parti in conflitto.”

Ma questa è una guerra vigliacca, Hamas si fa scudo dei malati e Israele affonda la lama della propria potentissima macchina militare dove ritiene che si nascondano i combattenti avversari. Ho sinceramente ammirato il segretario generale dell’Onu Guterres che ha osato proclamare ufficialmente, dopo aver prima stigmatizzato la brutale aggressione di Hamas: “Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e piagata dalla violenza. Le loro economie sono state soffocate. Poi le persone sono state sfollate e le loro case demolite.”

In un fazzoletto di terra vivono duemilionitrecentomila persone. Ora le case vengono sistematicamente distrutte e la gente è spinta ora a nord, ora a sud dove l’esercito israeliano richiede che si ammassi, per poter liberamente condurre le operazioni. Un gioco impossibile e tragico.

Nutro una grandissima ammirazione per l’intelligenza del popolo israeliano, anche per la capacità di riprendersi dopo l’immane sfregio dell’Olocausto, per l’intuizione di realizzare uno stato democratico modernissimo. Ma questo non c’entra nulla con la questione in argomento.

Bisogna avere il coraggio di distinguere tra le motivazioni, il diritto di vivere in pace del popolo ebraico, dal furore col quale Nethanyau e la destra militarista sta rispondendo. Questo brutto governo degli israeliani non può ammantarsi di una patente di impunità, soltanto perché la storia ha offeso brutalmente il suo popolo. Ci sono ebrei buoni ed ebrei pessimi, la questione non si pone affatto su questo piano distorto. Dunque, accanto alle fotografie dei poveri morti nei lager, ci sono con pari dignità quelle degli innocenti palestinesi, costretti a vivere e a morire in un enorme campo di concentramento, senza possibilità di sfuggire ad un destino beffardo che si replica nei suoi effetti devastanti, a parti scambiate.

Mi si perdoni il paragone che a qualcuno potrebbe apparire azzardato: ma qui conta il senso del discorso, non i tabù impronunciabili per apparire politically correct.

Mi auguro sinceramente che il popolo palestinese chieda conto ad Hamas delle sue enormi colpe, per averlo trascinato da irresponsabile nella polvere, con le scie di lutti e l’indigenza a cui sarà condannato per molti anni avvenire. Ed auspico per Nethanyau e la sua fanatica genia, che ha perduto il senso della misura e vuol riscattare con violenza inaudita l’incapacità di gestire la difesa dello stato, che pretende di allontanare i propri scandali attraverso l’esibizione muscolare, di trovare presto la sua fine politica, nel giudizio severissimo del popolo israeliano. Spero che non si sottragga nemmeno al tribunale della storia, per gli eccessi perpetrati. Lo chiedo in nome di un principio di convivenza, essenziale in quelle terre bene-maledette.

Anche molte voci di intellettuali israeliani, di scrittori, si levano a richiamare la coscienza. È un appello perenne, perennemente disatteso.

Così risuona la drammatica lettera al primo ministro israeliano della giornalista italiana Manuela Dviri, trasferitasi a Tel Aviv nel 1968. Suo figlio Jonathan morì nel lontano 1998, da soldato, nella guerra che l’allora primo ministro Nethanyau aveva scatenato contro il Libano di Hezbollah. Scrisse proprio il 2 marzo 1998 a Nethanyau. La lettera venne pubblicata nel 2003, quindi vent’anni fa, nel volume La guerra negli occhi. Diario da Tel Aviv.

La triste storia si ripete: «Egregio Primo Ministro Benyamin Nethanyau, certo non siamo noi i primi genitori che hanno ricevuto la sua splendida lettera di condoglianze.
Lei dice tra le altre cose: non dimenticheremo mai ciò che noi dobbiamo a Jonathan e agli altri valorosi soldati che sono morti in nome della patria, e non ci daremo pace fino a che non avremo raggiunto il nostro obiettivo di una giusta pace per il nostro paese e di sicurezza per il nostro popolo.

Parole sante, egregio Primo Ministro.
Lei dice anche che è conscio del dolore che è piombato sulla nostra famiglia per la terribile perdita e promette di non dimenticare mai il nostro Jonathan. Davvero?

Davvero lei non dimenticherà mai il nostro ragazzo e tutti coloro che sono morti e moriranno per una guerra superflua? E già che ci siamo, quali sono suoi progetti per terminarla, questa guerra? Le infilo nella busta una foto del mio Joni. Era un bel ragazzo, vero?

Me lo guardi bene negli occhi. No, non sposti lo sguardo. Lo guardi bene. Doveva proprio morire? Lei è proprio sicuro che non c’era un’altra scelta?

Attendo con ansia una sua rapida risposta.»

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

1 COMMENT

  1. La guerra non sarà mai la soluzione, non fosse altro perché ogni guerra finisce con un armistizio e poi una pace che quasi sempre lasciano insoluti i problemi che l’hanno generata. In molti casi (e questo è certamente uno di quelli!) non solo non ci sarà soluzione, ma questa guerra servirà a Nethanyau solo per spostare avanti nel tempo il problema, pretendendo di averlo risolto ma limitandosi a lasciarlo in eredità alle prossime generazioni, proprio come il debito che accumula lo stato italiano… Ad ogni notizia non riesco a non chiedermi quanti dei bambini che oggi vivono questo dramma saranno disposti a farsi esplodere per massacrare un po’ di coloro che sentono essere gli eredi dei colpevoli di ciò che stanno provando.
    E le colpe dei padri continueranno a ricadere sui figli…

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