In questi giorni i media si sono saturati del triste episodio: l’omicidio, anzi il femminicidio di Giulia Cecchettin. Non intendo ribattere notizie già consunte, piuttosto mi stimola un pensiero:

nella nostra strana società bulimica che si nutre e vomita continuamente messaggi ideali, sollecitati dalla cassa di risonanza evanescente dei social, e dimenticati tanto presto quanto presto sono stati assunti, è avvenuto una specie di miracolo.

L’Italia intera s’è desta e soprattutto i giovani: un’immane onda ribelle è scesa per le strade a protestare contro lo stillicidio, ogni tre giorni una vittima, che subiscono le donne. È successo ora e non prima.

La cronaca aveva puntualmente registrato dei precedenti fatti sanguinosi, ma la macina dell’attualità li ha tritati presto. 

Il progresso, anche quello sociale, non è mai gratuito. È un frutto, quand’è maturo, della rivolta che richiama alla consapevolezza e pretende dalla società un impegno concreto diverso e sostanziale, non bastano le prese di posizione o le condoglianze di facciata.

Dunque, c’è da chiedersi perché tale reazione popolare sia avvenuta proprio adesso: abbiamo vissuto la temperie del femminismo intelligente ai tempi di Carla Lonzi, la stagione della contestazione giovanile, l’evoluzione della legislazione che ha abbattuto l’anacronistico delitto d’onore e parificato i diritti e doveri della coppia. Incendi di paglia che il Novecento si è consumato nel fumo?

Certo c’è stato il movimento #Me too, nel nuovo millennio, che ha preso per le corna il problema della violenza sessuale, incoraggiato dalla notorietà dell’attrice Alyssa-Jayne Milano, ma non si erano mai avvertite in Italia manifestazioni di massa così rilevanti per le strade, come dopo il martirio di Giulia.

Il miracolo lo si deve alle circostanze, alla toccante giovane età di ambedue i protagonisti dell’evento delittuoso, ma soprattutto all’intelligenza dei familiari di Giulia. Schiacciando crudelmente il dolore interiore, il papà ma soprattutto la sorella Elena hanno tramutato il lutto privato in uno specchio di denuncia sociale.

Elena ha dedotto che il mostro si annida nella società patriarcale, stigmatizzando un atteggiamento spesso persino inconsapevole e considerato normale, dove è il maschio che deve naturalmente prevalere nelle dinamiche conflittuali di qualsiasi coppia. Ad ogni costo. Ad esso sarebbero perdonabili, in nome di una presunta diversità biologica, persino le nefandezze.

Forse sarebbe più appropriato chiamarla androcrazia (o fallocrazia), immaginando che i patriarchi fossero più protettivi e, comunque, meno patologici. Ma, bando alle sottigliezze semantiche, è proprio merito di Elena se il livello della discussione si è elevato al rango di critica alla società intera. Sul banco d’accusa non è solo la violenza estrema ad essere imputata, ma la quotidianità che è macchiata da un pregiudizio atavico e si manifesta per strada, sui luoghi di lavoro e di svago, in famiglia: la donna, considerata troppo indipendente o ambiziosa, diventa provocatrice e merita di essere ridimensionata ad un ruolo che le addossa persino la responsabilità degli oltraggi che patisce.

Sono persuaso che non saranno la legislazione più inflessibile, o le panchine rosse a modificare gli atteggiamenti, così come non succederà caricando sulla scuola una nuova materia istituzionale: l’educazione sessuale, sentimentale e di genere. La scuola fa già il suo dovere di indirizzo, a prescindere dai programmi ministeriali. Ogni volta che in società accade uno strappo, pare che il problema si risolva delegandole il compito di curare come un taumaturgo: già è successo per il bullismo.

Non affermo che siano iniziative inutili. Per carità, tutto aiuta. Ma il fatto è che i corsi si dovrebbero fare alle famiglie, agli adulti e non solo ai giovani adulti di domani: la lezione più importante scaturisce dai valori o disvalori praticati nell’intimità delle case, dai rapporti che si perpetuano tra le mura domestiche e dopo si diffondono. E nell’esempio virtuoso della politica che, invece, spesso ha proposto modelli poco edificanti. Tanto per non far nomi, come nell’epoca recente del gigionismo berlusconiano.

Nella guerra quotidiana dove la pace, raggiungibile solo con la morte, si sconta vivendo – come intuiva il poeta Ungaretti – registro con consolazione che ora i giovani hanno alzato le proprie bandiere e le voci. Per denunciare l’insofferenza verso un modello sociale ipocrita e fondamentalmente sbagliato. È una critica che trascende l’episodio in sé, vola più alto. Hanno iniziato a battersi per l’ambiente e la salvaguardia del pianeta, ora la critica si rivolge ai rapporti tra i sessi che sottintendono altre ingiustizie da abbattere.

Speriamo non sia un soffio d’aria fresca, che la loro voce severa ma piena di sana voglia di cambiamento non sia sedata, magari rincorrendo altre attualità effimere.

Auguriamoci che i venti reazionari che spirano nel mondo e affliggono anche il nostro Paese siano allontanati dalle grida gioiose che alludono ad un futuro più umano e generoso. Più degno: senza il fardello del rimorso e della vergogna. Solo così lo sfregio di questo omicidio dalle radici ramificate non rimarrà impunito.

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta, Dragan l’imperdonabile e Il mite caprone rosso. Vita breve di norbert c.kaser.

1 COMMENT

  1. Gentile Roberto,
    grazie per queste parole precise, pesate, forti, che non fanno sconti a nessuno. Leggere un pensiero tanto libero, consapevole e femminista nelle parole di un uomo sta a riconferma del fatto che la validità di un argomento non la si comprende solo vivendola di persona – ma di certo per comprenderla è necessaria l’attitudine che si mostra in questo scritto: educazione alla questione di genere, visione e decostruzione.

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