48 giorni di passeggiate arrabbiate. 48 giorni di rumore. Quello del boato delle bombe, del fragore delle palazzine che crollano, delle grida di chi ancora è vivo.

La resistenza palestinese è una resistenza femminista. È una resistenza queer. E come tutte le forme di resistenza è partigiana: prende una parte, si fa portavoce di una causa, la cui matrice è sempre la liberazione.

È partigiana perché non trova spazio per le proprie rivendicazioni nelle istituzioni – nazionali o internazionali- è sempre civile, è politica ma non è mai partitica, soprattutto non trova appoggio e non da appoggio a nessuna parte di potere. Al contrario dal potere viene strumentalizzata a piacimento per essere poi repressa quando si fa scomoda.

È femminista perché l’occupazione della terra, l’occupazione coloniale, passa sempre per l’occupazione dei corpi. E in Palestina i corpi delle donne sono gli occupati due volte: perché corpi palestinesi e perché corpi di donne.

Il demansionamento, la precarizzazione, la delegittimazione delle volontà, il controllo sulla libertà di movimento, la fame, la sete, la detenzione ammnistrativa, il controllo sulle nascite. Non c’è niente che sia più lotta femminista di questo. La resistenza in Palestina è delle donne, perché sempre delle donne sono gli uteri che partoriscono figli schiavi moderni o prigionieri, di quelle donne oggi costrette,in ragione delle condizioni igieniche critiche nei campi e la mancanza di acqua, a prendere pillole anticoncezionali senza rispettarne i termini di sospensione.

La resistenza è delle donne perché resistere richiede consapevolezza e la consapevolezza è prerogativa di chi ha propensione ad educarsi. In un sistema che legittima l’arroganza del maschio, la donna fa tesoro di umiltà, si unisce negli spazi di confronto, accetta l’aiuto psicologico perché, se il patriarcato non le concede di essere libera le concede almeno di essere debole. La vuole debole. Ecco che in questi spazi di debolezza la donna parla, impara, guarisce, cresce, e infine sa di cosa parla.

Il suo corpo è sempre un fatto politico perché nelle richiesta di emancipazione rompe il vincolo dell’ordine, rifiuta la potestà che è sempre patria.

La resistenza è queer perché tutto ciò che è liquido è dannatamente fastidioso per un sistema che vive di strutture e inquadramenti. Il potere si fonda sul controllo e tutto ciò che sfugge all’inscatolamento etero normativo ha le potenzialità per decostruire i sintagmi del potere.

La resistenza è sempre intersezionale, come lo è ogni istanza di liberazione, perché lotta contro una stessa costruzione identitaria collettiva: quella patriarcale.

Il patriarcato è anche una questione di genere ma non è solo una questione di genere; è piuttosto a fondamento del sistema, che vive di asimmetrie di potere e che per perpetuarsi ha bisogno di un oppresso e un oppressore.

Ecco che il patriarcato è coloniale nella sua massima espressione. Nella colonia si compie il disegno di equilibri di forza e l’economia del potere, che traffica in guerra, prospera.

L’occupazione dell’oppressore funziona sempre per sottrazione: della terra, della sovranità, della giurisdizione, degli affetti, dei viveri, delle volontà, dell’autostima, del senso di sé. Prima ancora che della vita.

In questo schema di continuità gli eredi più temibili sono quelli silenziosi, non sono i Netanyahu, non sono neanche i Javier Mieli o i fattucchieri della follia sionista, non sono i nostri maldestri Salvini, Questi sono pericolosi quanto passeggeri.  I più insidiosi sono i molti tra i #notallmen, che rimangono indisturbati, mai smascherati, perché sanno banalizzare le rivendicazioni con il potere della dialettica e l’aspetto dell’uomo medio. Sono gli stati occidentali tutti, silenziosi, cauti, neutrali, ben consapevoli sostenitori di un modello patriarcale strutturale che impatta a tutti i livelli e che mantiene saldi gli equilibri di potere.

Giulia Fiamengo
Polemica. Dico cose scomode, sono quelle su cui nascono dibattiti e conquiste radicali. Di solito le si sente definire "controverse". Uso la scrittura come strumento di attivismo. Amo le parole perché sono i colori sulla tela: se non scegli quelli giusti, quel che è notte diventa un giorno di sole terso. Sono piena di bias, come tuttə voi, che tento di decostruire anche qui, educandomi per scrivere. Anguria a merenda. Oliva nello spritz.

1 COMMENT

  1. Il testo corre su un filo e rischia ad ogni passo di cadere drammaticamente nel precipizio di una posizione sbagliata e che non vede tutta la realtà. Ma con abilità e capacità non cade pur rischiando molto. Una visione dura che prescinde dalla strutturalità storica di alcuni poteri e degli avvenimenti forse è monca. Ma c’è tempo per “conpletare” il cielo. Mi farebbe piacere discuterne con l’autrice. Maurizio Cecconi

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