Alcune risposte di Edi Rama, primo ministro albanese, a chi gli chiedeva lunedì scorso al termine della conferenza stampa congiunta con il nostro premier Giorgia Meloni, “ma voi cosa ci guadagnate” dall’accordo con l’Italia sui due centri di raccolta per i migranti da realizzare in Albania? “Una domanda che non capisco. Ci avete aiutato quando tentavamo di scappare dall’inferno del comunismo. Poi ci avete aiutato nel 1991 e nel 1992. Di nuovo nel 1997. Non ci avete chiesto nulla in cambio. Così è la collaborazione tra i nostri Paesi”.

Oppure: “Quando l’Italia ha bisogno, noi diamo una mano e siamo onorati di farlo. Perché l’Italia ci ha mostrato così tanto rispetto, ci ha dato una grande mano non una volta ma tante volte, ci ha accolti a braccia aperte quando sfuggivamo dall’inferno”. E in modo più lapidario, rintuzzando con una punta di garbato fastidio l’ombra del dubbio fra i (meglio: fra una parte dei) giornalisti italiani: “Se l’Italia chiama, l’Albania c’è”.

Da imponente ex cestista – è alto 1 metro e novantotto – e delicato artista – dipinge e ha insegnato Pittura presso l’Accademia delle Arti di Tirana – Rama sa rispondere con abilità giocoliera alle domande più scomode o più sgradite. Di sicuro, la modernizzazione evidente registrata dal Paese delle Aquile in questi ultimi anni è anche merito suo. Prima come sindaco di Tirana, dal 2000 al 2011 (venne anche proclamato miglior primo cittadino del mondo nell’ambito del «World Mayor»), poi, dal 2013, come premier capace di far dimenticare l’inquietante stagione del suo predecessore Sali Berisha, il leader di centrodestra coinvolto pesantemente nello scandalo delle “piramidi finanziarie” che lo fece anche prendere a sprangate dai suoi hooligans. Ora, al di là del sospetto su reconditi do-ut-des ingenerato da tanto entusiasmo e tanta disponibilità mostrati nei confronti di Giorgia Meloni, l’inedito accordo italo-albanese suscita un’altra riflessione, estranea al merito specifico della questione. Questa: che in politica, anche se non nella scienza, si conferma ancora una volta la regola aurea degli opposti che si attraggono.

Per la cronaca, Edi Rama è il leader del partito socialista, formazione erede (profondamente depurata e riformata, è chiaro) del più tetragono partito comunista d’Europa che per 45 anni, con Enver Hoxha prima e Ramiz Alia dopo, ha governato brandendo la clava del terrore e ibernando in un allucinante medioevo sociale e economico il popolo albanese. Una sponda ideologica esattamente contraria rispetto a quella da cui proviene Giorgia Meloni e che ha nutrito la nuova Destra rappresentata da “Fratelli d’Italia”, piuttosto a disagio quando sollecitata a fare in modo coerente e definitivo i conti con il passato fascista della loro storia.

Percorsi politici e storie personali del tutto lontane, dunque, che non hanno impedito ai due leader dirimpettai sulla costa adriatica di entrare in forte empatia reciproca. Non a caso, il protocollo firmato l’altro giorno a Palazzo Chigi è frutto di un cordiale “patto estivo” raggiunto lo scorso agosto, lontano dai riflettori, in un momento delle vacanze della famiglia Meloni, spostatasi dalla masseria pugliese di Ceglie Massapica per una breve escursione in Albania. Qualcuno ha ironizzato sulla “politica dell’aperitivo” del nostro presidente del Consiglio, accostandola alla pazza “estate del Papeete” e al tripudio del mojito di salviniana memoria nell’ormai dimenticato 2019 pre-Covid. Il richiamo può essere divertente, ma politicamente non regge. Lì avevamo a che fare con i deliri di onnipotenza di un leader populista eccitato dal successo leghista alle Europee, qui con un accordo a sorpresa fra due Stati europei per gestire il nostro problema dell’inarrestabile ondata migratoria. L’essere un premier di destra e l’altro di sinistra, non è stato di ostacolo al raggiungimento di un risultato che forse non sarà di valore storico, ma che rischia di compromettere seriamente la modifica dei trattati di Dublino sull’immigrazione, rafforzando le posizioni oltranziste dei Paesi sovranisti.

Pensiamo ad alcuni illuminanti precedenti in cui l’incontro fra opposti ha segnato una svolta nel nostro come in altri Paesi. Ad esempio, l’inaspettato confronto del 14 marzo 1998 al Teatro Verdi di Trieste tra l’allora presidente della Camera – di provenienza Ds- Luciano Violante e l’ex leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, che avviò il disgelo fra Destra e Sinistra su temi storico-ideologici cruciali come l’antifascismo e le responsabilità dei comunisti italiani a proposito di confine orientale, nel tentativo di costruire una “memoria condivisa”. Pensiamo, su ben altra scala alla storica stretta di mano, il 13 settembre 1993, fra il premier israeliano Yitzhak Rabin e il capo palestinese Yasser Arafat, dopo la ratifica degli Accordi di Oslo alla Casa Bianca mediati da Bill Clinton, a prescindere dal sostanziale fallimento di quello che rappresentò l’unico vero serio tentativo di porre fine al lungo conflitto in Medioriente con la creazione di due Stati per due popoli sullo stesso suolo. In entrambi i casi citati, a intralciare e compromettere migliori risultati fu sempre il “fuoco amico” dei partiti di provenienza.

Nel caso di Violante e Fini, il loro impegno a favore di un dialogo aperto e senza pregiudizi sugli errori e le colpe storiche ascrivibili ai reciproci schieramenti, fu boicottato innanzitutto dall’interno. Portò sì, sei anni dopo, all’istituzione del Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, ma fallì nell’obiettivo primario di creare una “memoria condivisa”. Quanto alla tragica fine di Rabin e all’affossamento del suo coraggioso atto di fiducia in un futuro di pacifica convivenza fra i due popoli, è noto che egli non fu vittima di un estremista palestinese bensì di un fanatico ultraortodosso ebreo contrario alla pace con l’odiato nemico.

Naturalmente, è facile osservare che non sempre gli opposti si sono attratti a fin di bene. Ne è una triste riprova la “strategia della tensione” degli anni di piombo nel nostro Paese, quando il terrorismo di matrice neofascista e di fede brigatista finirono per creare un comune cortocircuito rosso-nero che ha messo fortemente a rischio la tenuta del sistema democratico, nemico di entrambi gli estremismi e dei poteri deviati dello Stato che se ne sono serviti.

Tornando al “patto estivo” fra Meloni e Rama, qualche domanda, succintamente, viene da porsela. L’ipotesi di trasferire in Albania fino a un massimo di 39mila persone l’anno salvate nel Mediterraneo dalle navi di Marina e Guardia di Finanza (non delle Ong), ricorda tanto la contestata scelta del premier britannico Rishi Sunak di deportare i migranti irregolari in Ruanda. Operazione che lo stesso Edi Rama, in un’intervista al Corriere della Sera del 14 maggio scorso, aveva criticato osservando che “bisogna regolare i flussi, certo. Ma le pare una soluzione intelligente – rispondeva a precisa domanda, deportare chi viene a offrire manodopera?” (in un Paese che ne ha fortemente bisogno, come aveva spiegato in premessa). Ora, è vero che le infrastrutture da realizzare in Albania, l’accoglienza e il trasferimento dei migranti saranno a carico dell’Italia. Ed è vero che, come ha tenuto a precisare il leader albanese, se i rimpatri non andranno a buon fine toccherà riprenderci gli “indesiderati”. Tuttavia, oltre alla tristezza per la disumanità reiterata di una tale politica del fenomeno migratorio, qualche brivido lungo la schiena viene ipotizzando che apparati dello Stato schipetaro possano essere eventualmente cooptati nella gestione di questi hotspot decentrati (chi può garantire veramente che tutto filerà secondo le previsioni?). Siamo certi che la fama sinistra che circondava la polizia e le prigioni in Albania in era comunista sia solo un brutto e ormai lontano ricordo, ma lascia pensare il fatto che lo scorso mese di giugno l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) “ha coinvolto 25 operatori penitenziari” albanesi, informa la rivista della nostra Polizia Penitenziaria, in “un’importante iniziativa di formazione volta a garantire” fra gli altri obiettivi anche comportamenti “in linea con gli standard internazionali in materia di tutela dei diritti umani”.

Scacciamo, però, tanto la preoccupazione per un’eventualità piuttosto remota di delega securitaria a un Paese terzo (sul modello della fallimentare esperienza in Tunisia), quanto facili processi alle intenzioni (italiane) di creare una sorta di Guantanamo mascherata a poche miglia nautiche dalle coste pugliesi, in territorio extra-Ue. Prendiamo a garanzia di ciò, in un volonteroso atto di fede umanitaria, più che le sdegnate smentite (italiane) l’interesse spasmodico che Edi Rama nutre di traghettare al più presto l’Albania nel novero della famiglia eurocomunitaria. Sapendo che sul rispetto dei diritti umani in casa propria avrà addosso gli occhi di Bruxelles e di quello che ama ancora definirsi “mondo libero”.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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