Ci sono luoghi del mondo che al solo nominarli ci riportano automaticamente all’immagine prevalente e consolidata che si portano cucita addosso, come una divisa. Immutabile o obbligata. Pola è uno di questi. Perché la Pola ribattezzata “Pula” nel 1945 dai comunisti di Tito e ritornata, in omaggio al bilinguismo, anche al toponimo italiano nel 1991, con la Croazia post-jugoslava, è come una bellezza sfigurata. La memoria di un abuso e di un sopruso subiti, nella percezione collettiva che ci siamo costruiti di lei negli ultimi vent’anni. Pola, alla nostra latitudine, è infatti il simbolo per eccellenza della “fine dell’italianità adriatica”, per dirla con lo storico triestino Raoul Pupo, rappresentata plasticamente dalla partenza in massa dei suoi abitanti imbarcati in un gelido inverno sul piroscafo “Toscana” dopo la firma del Trattato di pace a Parigi il 10 febbraio 1947, che punì un’Italia scesa in guerra al fianco della Germania nazista (non a caso la data scelta per celebrare il Giorno del ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata), prima di passare dall’altra parte della barricata. Punto. Non serve andare oltre su questo tasto, molto dolente e ancor oggi divisivo.

Tuffandoci invece nella lettura del primo romanzo tradotto in italiano di Amir Alagić, “Un’infanzia lunga cent’anni” (Ronzani Editore, 355 pagine, 19.00 euro), la Pola che scopriamo non è certo sgravata dalla memoria di quella dolorosa ferita tutta “nostra” (la visione della storia e dei fatti, da parte jugoslava prima, slovena e croata dopo, è naturalmente di segno opposto), e di ciò va dato atto all’onestà intellettuale dell’autore, ma ne esce con un volto molto più interessante, più umano, meglio definito nella sua ricchezza culturale e plurale di “città di frontiera”. Inquadrata in una dimensione più costruttiva, soprattutto. In grado di amalgamare il senso di pietas nei confronti di tutti i drammi e tutte le vittime evocati nel racconto, nell’arco di un secolo, senza distinzione di nazionalità o provenienza. La Pola raccontata da Alagić è quella che si appresta a fare il suo sospirato ingresso nell’Europa comunitaria. In una fase in cui sono già ben visibili le avvisaglie di declino, economico e strategico, del Vecchio Continente, sulla difensiva davanti alla vitalità espansiva delle nuove economie emergenti e in procinto di alzare una nuova cortina di ferro per fermare la crescente pressione migratoria. Gli stessi problemi irrisolti e aggravati di oggi.

Lo scrittore di origine bosniaca (è nato a Banja Luka nel 1977), dimostra di conoscere Pola a fondo come pochi. Meglio di molti che la abitano da sempre, vien da pensare, o di chi ci ha vissuto più a lungo di lui. Non basta, infatti, avere radici autoctone in un posto, o portarne le stigmate avvelenate dell’esule irrassegnabile, per credere di saperne e aver capito tutto meglio di altri. A prescindere. La Pola che filtra dalla scrittura di Alagić è un autentico porto delle anime. Occupate per lo più nel difficile mestiere di vivere senza privilegi, senza sconti né scorciatoie. La città che in cento anni ha cambiato cinque volte stato, è un approdo sicuro sul mare, da sempre proiettato verso il mondo, dal quale si parte o nel quale si torna. Dove si arriva, per scelta o per caso, dove ci si ferma, ci si costruisce un futuro o si cerca di dimenticare un passato infelice, come accade a molti dei personaggi che popolano il romanzo. Fra cui lo stesso autore, che ha dalla sua – almeno sotto il profilo letterario – il vantaggio della propria biografia di profugo. Nel 1994, a diciassette anni, lasciò giovanissimo il suo paese in fiamme (forse anche per non essere costretto a combattere? Per non uccidere in nome di un folle e bugiardo nazionalismo? Questo non lo sappiamo, ma non ci pare improbabile) e arrivò a Pola, un’isola di pace nel ventre di una Croazia non ancora pacificata. Da qui è ripartito, esordendo poco più che trentenne con una raccolta di racconti. Fino all’uscita, nel 2017 a Zagabria, di “Strogodišnje djetinjstvo”, che Ronzani Editore ha meritoriamente scelto di pubblicare quest’anno nell’ottima traduzione di Marijana Pulijć (tra l’altro, membro attivo dell’iniziativa culturale “Venezia legge i Balcani” diretta dalla docente a Ca’ Foscari Marija Bradaš, alla quale Alagić ha preso parte più volte come ospite). Vi è dunque una simbiosi stretta, un rapporto di gratitudine di Amir con la sua città di adozione, che ha dichiarato di amare “perché abbiamo un destino simile, il destino dell’esilio”.

La forza letteraria di “Un’infanzia lunga cent’anni”, si impone all’evidenza. Muove dal talento narrativo e dalla profondità d’animo del migrante scrittore. Doti sublimate da una prosa colta e introspettiva, smaliziata e immaginifica, quanto a volte cruda, melanconica, icastica. Non si può, naturalmente, prescindere dalla trama, fondamentale come lo sono i piloni per tenere in piedi un ponte, ma bastano poche note in proposito, lasciando al lettore il piacere di apprezzarne l’impeccabile costruzione. La sceneggiatura è quella tipica di un noir, che già dall’incipit inocula la dose giusta di mistero. La vita di Slavko Delcaro, uomo perennemente insicuro dalla carriera ormai sfiorita di musicista riconvertitosi a insegnante di cultura musicale, assume una svolta imprevista quando, un sabato mattina del 2011 (la data si desume da alcuni eventi concomitanti richiamati poche pagine dopo), nota al mercatino dell’antiquariato del capoluogo istriano un oggetto mescolato a varie cianfrusaglie che lo riporta di colpo alla sua fanciullezza. Si tratta di un piccolo globo dorato, dal quale resta ammaliato come un Aladino dalla magica lampada. Slavko lo prende fra le mani “lentamente e con prudenza, come si fa con le cose rare e preziose”, e preme un pulsante che spalanca i due emisferi del prezioso mappamondo, da cui risuona “una melodia familiare, quasi dimenticata, che tanti anni prima, da bambino, era penetrata nelle sue orecchie e che, in quel momento, già dopo la prima battuta così zoppa e arrancante, si era messa a danzargli attorno alla testa per riversarsi poi nella via dimostrando che gli era rimasta vicino per tutto quel tempo, proprio come la moltitudine di immagini dell’infanzia perdute, che quella melodia portava con sé”.

La musichetta riscoperta, casualmente, da Slavko diventa l’implicita colonna sonora che accompagna l’intrigante viaggio storico, antropologico e psicologico proposto da Amir Alagić nel suo romanzo, affrescato con la cura dei particolari e reso omogeneo dalla potenza dell’insieme. Il piccolo mappamondo in miniatura si rivelerà essere, nei successivi e incalzanti sviluppi del thriller, solo uno dei tanti gioielli che qualcuno ha provocatoriamente disseminato per le strade di Pola con il preciso intento di farli ritrovare dal primo occasionale passante. Azione in sé del tutto insensata, se non si venisse a scoprire che è collegata alla morte in circostanze sospette di due donne. La prima è la più importante sotto l’aspetto della trama, anche perché si tratta della madre del suo amico d’infanzia Vladimir Strahinja, che rientra precipitosamente dal presidio antiglobalista del movimento Occupy Wall Street al quale partecipava a New York, per avviare con l’aiuto di Slavko un’indagine parallela a quella sbrigativa conclusa dalla polizia. Nella postfazione al libro, Silvio Ferrari – uno dei più affermati traduttori e studiosi di letteratura serbocroata – definisce la coppia di amici “un patetico team investigativo, alla caccia di un esito che non sconvolgerà comunque la rassegnata condizione personale di due deboli personaggi che, ispezionando il loro passato, credono di venire a capo della loro tensione esistenziale”. E’ proprio scavando nelle differenti solitudini di Slavko e Vladimir, incrociate con le sofferte o schizofreniche biografie di altri personaggi secondari, e varcando più volte il confine fra realtà e fantasia, che Amir Alagić riesce a ricostruire cent’anni di vita civile di una città vittima in tempi incredibilmente ravvicinati dei capricci della storia. Ma ci offre anche il suo sguardo disincantato e ironico su un mondo che sta mutando di nuovo pelle, velocemente, in sintonia con la più generale crisi del modello capitalistico neo-liberista, farcito di equivoci (liberismo non equivale sempre a libertà e quasi mai a giustizia) contraddizioni e inganni. Soprattutto negli ex paesi comunisti, il terreno più fertile per le democrature di matvejeviciana memoria e dei più rigidi egoismi sovranisti.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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