Sessant’anni fa, il 9 ottobre 1963, si verificava l’immane tragedia del Vajont.

Per descrivere i momenti della catastrofe le parole più pregnanti sono quelle di Tina Merlin, la giornalista che, unica voce lucida in mezzo a un’informazione indifferente o complice, da anni denunciava con fatti e prove il disastro che si sarebbe verificato se i poteri economici e politici non si fossero fermati, nella loro cinica spinta a rincorrere il profitto a tutti i costi, nonostante tutti i segnali che dimostravano l’enorme rischio per le popolazioni e i loro beni.

‘Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il monte Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra onda impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime.’

Duemila morti, interi paesi spazzati via dalla faccia della terra.

Per qualche giorno la grande stampa nazionale si occupò dell’evento, sull’onda del grande impatto emotivo provocato dalle immagini della devastazione, parlando spesso di “tragica fatalità” e di “evento naturale imprevedibile”.

Invece era stato previsto, eccome, e Tina Merlin aveva riportato con innumerevoli articoli, fino dal 1959, i tragici segnali occultati dall’impresa costruttrice, che intendeva perseguire i profitti derivanti dalla produzione di energia elettrica, ad ogni costo.

Dopo la tragedia, il tentativo di rimozione delle responsabilità è scattato subito, anche qui con la complicità della grande informazione nazionale. Si doveva affermare il principio del disastro naturale del tutto imprevedibile, nonostante Tina Merlin avesse fatto uno spietato, preciso e circostanziato racconto di tutte le omissioni di scienziati, tecnici e decisori politici per occultare i segnali, ben evidenti alle popolazioni che vivevano vicino alla diga, che il monte Toc sarebbe inevitabilmente franato nel lago, quando questo fosse stato riempito.

Scrisse subito un libro bellissimo per riassumere l’intera vicenda, lo intitolò “Sulla pelle viva”, però trovò un editore solo vent’anni dopo, nel 1983.

L’operazione di rimozione e depistaggio sull’opinione pubblica era purtroppo riuscita.

Fu scalfita trent’anni fa dall’opera del regista e attore Marco Paolini, col suo monologo teatrale “Il racconto del Vajont”, che fu trasmesso dalla Rai con una rappresentazione dal vivo nello scenario della tragedia, registrando un primato da milioni di telespettatori.

In una recente intervista Paolini dice: ‘Dopo sessant’anni il Vajont in Italia fa di nuovo paura al potere. Nessuna TV, a partire dalla Rai, ha accettato di trasmettere il riscritto racconto della tragedia, in occasione dell’anniversario del prossimo 9 ottobre. Nessuno sponsor, tantomeno istituzionale, ha accettato di investire per collegare in rete gli oltre cento teatri del Paese che quella sera lo metteranno in scena… Oscurare il Vajont conferma che la classe dirigente ancora si illude di poter gestire i disastri: prevenirli impone qualità che non possiede.’

Quella del Vajont è una memoria che occorre tenere viva, perché, come vediamo ormai quasi quotidianamente, il potere continua a prediligere il profitto, contro la vita delle persone, dell’ambiente, della natura.

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