Viviamo in una società nella quale la parità di genere dovrebbe essere un qualcosa di scontato, tanto da non aver bisogno di “quote rosa” né di qualsiasi altra cosa che possa riservare dei posti alle donne solo perché tali. Poi però ci rendiamo conto che, spesso, il retaggio culturale italiano continua a suggerirci che la donna dovrebbe essere moglie e madre e poco altro, che la realizzazione di una donna passa di più dall’atto di sposarsi e di avere figli che, ad esempio, dal fare carriera o ottenere una posizione sociale di rilievo, e in quel momento ci torna alla mente che, forse, l’avere quote dedicate alle donne va bene.

In realtà, se ci pensiamo bene, ciò non è che lavarci la coscienza, pensando che il garantire quelle quote serva a compensare la subalternità sociale che spesso l’essere donna ancora rappresenta. Non sono ancora bastati i moltissimi esempi di grandissime donne del passato e del presente a farci capire come i sessi sono diversi, certo, ma assolutamente eguali in tutto e per tutto. Non è bastata la legislazione, che faticosamente e spesso in ritardo sui tempi è avanzata sul tema dei diritti (voto, aborto, divorzio, ecc.), perché ancora oggi troppi uomini considerano le donne come proprietà personali, che quindi non possono avere una propria luce a meno che questa luce non venga loro concessa.

Ci sono ancora troppi casi in cui molti episodi di violenza e abuso non vengono denunciati poiché spesso alcune donne soffrono di dipendenza emotiva verso il partner tanto da renderle quasi incapaci di vedere fino a che punto si può spingere il possesso e il controllo verso di loro. Ci sono comunque anche molti casi in cui le donne, nei tempi che ciascuna di loro può avere e che variano moltissimo a seconda della persona, arrivano a denunciare le situazioni o le occasioni di abuso.

Nella prima casistica i conoscenti o gli amici con cui la donna si può confidare dovrebbero consigliarle di rompere la spirale di dipendenza, ad esempio uscendo dal tetto comune o rivolgendosi a specialisti o a centri antiviolenza, e sperare che la persona recepisca il messaggio prima che il meccanismo di controllo possa essere totale o la spirale di violenza possa portare la persona alla morte per mano del partner, mentre nel secondo caso i servizi sociali, i vari enti pubblici e la magistratura devono farsi carico della situazione, aiutando in tutte le forme la donna (e gli eventuali figli) a uscire dall’ambiente familiare tossico, a condividere la propria esperienza, a farsi aiutare o a denunciare gli abusi subiti in una determinata situazione da parte di persone conosciute o meno, con la promessa però della sicurezza personale e dei familiari.

Lo Stato deve impegnarsi a garantire sicurezza alle vittime di violenza domestica, di abusi, stupri o altro perché, tornando al punto di partenza di questa mia riflessione, la parità di genere ci dovrebbe essere ma spesso è solo uno slogan, perché le donne che denunciano troppo spesso vengono lasciate sole o non protette abbastanza, perché si può arrivare facilmente a colpevolizzare la vittima con frasi tristemente note (“se l’è cercata”, “lui era una brava persona e la amava”, “ma perché non hai denunciato subito”, “eh, ma aveva bevuto ed era vestita in modo provocante” e molte altre ancora), che spesso portano ad una doppia violenza: non solo quella già vissuta sulla propria psiche, pelle e/o corpo, ma anche quella del giudizio pubblico di una società che, di nuovo, si professa a favore della parità di genere ma poi nella sua maggior parte o non lo è o non dimostra di esserlo. In rete ci sono moltissime pagine, immagini e citazioni che invitano sia a lottare ancora per la parità di genere, sia a lottare contro la violenza di genere, che poi è un po’ la stessa cosa: la non parità di genere può generare violenza di genere, laddove una situazione di equità non è detto che non la genererebbe ma, sono sicuro, farebbe diminuire drasticamente i tragici numeri che quotidianamente leggiamo. Tuttavia, ad oggi, non riesco a essere così ottimista: la parità di genere si collega anche all’uguaglianza di tutti gli esseri viventi, che nel 2023 dovrebbe essere un qualcosa di già compiuto e che invece non lo è affatto; è come se, nel nostro inconscio, avessimo sempre bisogno di avere qualcuno di diverso, più debole o più in difficoltà dietro di noi su cui poter scaricare le nostre frustrazioni e insoddisfazioni ed esercitare il nostro potere. Insomma, ancora oggi è purtroppo attualissimo l’antico adagio latino “homo homini lupus”. Purtroppo il lupo è dentro di noi, per cui dobbiamo lavorare per estirparlo.

Federico Faggian
Nato a Treviso il 02-06-1981. Laureato in Lingue a Ca’ Foscari, specializzato alla SSIS Veneto. Insegnante di spagnolo in una scuola superiore di Treviso. E’ stato presidente del quartiere Ovest-Ghetto e collaboratore de L’Eco di Mogliano; è consigliere di un’importante realtà associativa locale, il CRCS Ovest-Ghetto. Impegnato da molti anni in città nel mondo dello sport, dell’associazionismo volontario e della cultura.

1 COMMENT

  1. Mi congratulo con il Prof. Faggian per le parole scritte, frutto di un’analisi profonda che tocca il cuore e la mente di chi le legge. Spero che queste righe possano essere un monito, una guida per una società così confusa e persa e che questo fenomeno non abbia più a ripetersi troppo frequentemente a danno delle donne, colpevoli solo di essere donne. Grazie per il suo contributo con la speranza che il suo messaggio arrivi a molti.

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