Leggo e cito da un articolo di Fulvio Ervas, autorevole scrittore che collabora con questa testata. L’articolo, pubblicato su Tribuna di Treviso, Nuova Venezia e Mattino di Padova il 4 agosto, parla della difficile situazione della città di Venezia. Tra le righe trovo spunto per una riflessione:

“È questo il modo con cui Venezia trascorrerà i suoi prossimi decenni? Come una vecchia signora in una casa di riposo? Luogo dove nessuno ama il trapassante, perché nessun estraneo può amare davvero un vecchio al quale si chiede semplicemente che non sia troppo di peso e paghi la retta.”

Certo è una similitudine azzeccata, “ci sta” per dirla prosaicamente. Ma – mi chiedo – è vera? Una casa di riposo (che non esiste nemmeno più, esistono le Rsa) è davvero il luogo qui descritto? E se non lo è, da dove viene questa immagine che – mi permetto – non fa bene a nessuno? Ricordo di aver provato lo stesso disagio leggendo un articolo di Massimo Gramellini (29 marzo, Corriere della Sera) dal titolo “Dora vuole tornare a casa”.

Qui l’autore prende le difese di un’anziana signora ospitata in una Rsa, per volontà del suo amministratore di sostegno (solo il fatto che ci sia dice qualcosa), che come è noto fa riferimento all’autorità di un giudice tutelare (che tutela, cioè protegge).  La signora Dora non vuole stare lì:“… non intende più dividere la stanza con malate terminali che le muoiono accanto o con sconosciute che la svegliano di soprassalto gridando ‘Aiuto!’. (…)

Sicuramente l’amministratore di sostegno avrà avuto le sue buone ragioni, eppure il supplizio di Dora tocca una corda universale. Ci ricorda che anche gli anziani sono titolari di diritti, e di uno in particolare: quello di vedere rispettata, nei limiti del possibile, la loro volontà di vivere e morire dove più gli garba, cioè dove si sentono più liberi e protetti. Una società che si definisce civile almeno questo glielo deve.”Anche in questo caso mi chiedo: è vero? Davvero una persona anziana che necessiti di tutela (pertanto non autosufficiente, pertanto bisognosa di cura) ha diritto di vivere e morire dove più le garba? E se non è vero, nuovamente, da dove vengono queste parole che non fanno bene a nessuno?

In quasi quindici anni di lavoro in strutture residenziali di cura, di cui più di dieci in Rsa (Residenze Socio-Assistenziali), più qualcuno di frequentazione come familiare di ospiti, posso rispondere che niente di quanto riportato in queste citazioni è vero. La persona anziana ricoverata in Rsa è accolta con professionalità da equipe specializzate, che si spendono per rispondere ai suoi bisogni con uno sguardo multiprofessionale e, lo posso assicurare, spesso amorevole.

Credo sia ingiusto svilire l’impegno quotidiano di educatori, infermieri, medici, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, operatori socio-sanitari, senza dimenticare i cuochi e il personale delle pulizie e dell’accoglienza, con poche parole che rimandano a visioni di Reclusione, Solitudine e Abbandono. Certo non è come stare a casa propria, ma la realtà è che l’utente della Rsa a casa propria non ci può stare, e i motivi (le ”buone ragioni” citate da Gramellini) possono essere molteplici ma sempre validi, e garantiti da un iter burocratico. Le Rsa sono oggi, per fortuna, la risposta di una società civile al bisogno di protezione e assistenza della persona anziana.

Qualcuno obietterà che ci sono tristi storie di abusi: questo sì è vero, ma ci sono anche nelle scuole, negli ospedali e nelle chiese (e pure a casa…). Non per questo sono considerati tutti luoghi malsani. Da dove viene allora questo stereotipo dell’anziano “parcheggiato”, quando non serve più, in grigi ambienti simil-carcerari? Sicuramente dal passato, purtroppo, ma credo soprattutto dalle nostre paure. Nessuno vorrebbe trovarsi nella condizione di non essere più pienamente autonomo e di dover lasciare la propria casa. Forse può essere d’aiuto per tutti raccontare un’altra storia, quella vera: nelle Rsa oggi si può stare bene, e – può sorprendere – anche meglio che a casa, considerate le condizioni di salute e i bisogni assistenziali che determinano il ricovero. La nonna di una mia cara amica, ammalata di depressione e affetta da decadimento cognitivo, dopo qualche tempo dall’ingresso in una di queste strutture ha chiesto che le fossero portati rossetto e bigodini. E ha ripreso a sorridere.

Elena Carraro
Dopo la laurea in Lingue e Letterature straniere, ha approfondito altri percorsi di studio e intrapreso la professione di fisioterapista, condividendo con altri operatori sanitari l'impegno per la difesa della dignità della persona fino all'ultimo istante di vita. Ha sempre coltivato l'amore per la musica e la scrittura. Ha pubblicato L'Uovo di Mary - Storia di una sopravvivenza (Cleup 2018) e Triplo Concerto (Antilia 2023). Lasciato l'ambito sanitario per "anzianità", lavora oggi come copywriter.

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