SUL FILO TRA PASSATO E PRESENTE CON IL PESO DELLA MEMORIA

La storia è, a ben pensarci, come la terra. Più lo scavo affonda nel tempo e nelle vicende umane, e più emergono le stratificazioni sottostanti. I nessi e connessi, non sempre facilmente percepibili, fra il prima e il dopo. Se poi, a questo lavoro di meticolosa e paziente indagine nell’humus storico partecipa anche la letteratura, la sfida intellettuale si fa al tempo stesso esaltante e molto rischiosa. Agli scrittori che esplorano il passato l’inventiva all’evidenza non basta per capire e caratterizzare fatti e personaggi, creare trame e storie, emozionare e insieme convincere. Come bravi attori che studiano a fondo il copione e fanno proprio il ruolo, devono mutuare infatti dallo storico e dall’archeologo di professione il rigoroso metodo di ricerca. E, come scrive l’ultracentenario filosofo francese Edgar Morin, “un metodo non è valido se non include la complessità. Abbiamo bisogno di un metodo che ci aiuti a pensare la complessità del reale, invece di dissolverla e di mutilare la realtà”.

Alla lezione dell’autore di “I sette saperi” e “La sfida della complessità”, viene da pensare dopo aver letto “Nel limbo sospesi” di Chiara Rango (Besa Muci 2022, pagg. 237, euro 16,00), un viaggio letterario dentro la storia tormentata dei Balcani, ricco di intimismo e di poesia quanto di penetrante spirito di osservazione antropologica e di lettura attenta delle dinamiche sociali e politiche di una nazione scomparsa di recente: la Jugoslavia. Con quello che, a nostro avviso (ma non tutti concorderanno su questo), è il vantaggio per l’autrice: essere una outsider. Essere figlia di un’altra terra e cultura, attirata semplicemente da quelle che Paolo Rumiz chiamerebbe “note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo”. Ma, proprio per questo, in grado di levarsi al di sopra della coltre vischiosa delle passioni di parte e scandagliare con mente aperta le “complessità” incontrate. Nel titolo, evocativo quanto la limpida e rarefatta copertina disegnata dalla stessa autrice, è racchiuso il senso profondo e universale di sofferenza interiore che accomuna esistenze segnate dal trauma della guerra e dell’esilio, si tratti della Venezia Giulia del 1945 oppure della Bosnia Erzegovina del 1992. Chiara Rango si cimenta nella funambolica impresa di condurre il lettore dentro la storia – contrastata e controversa – dei Balcani e di farlo camminare in equilibrio precario insieme a lei sul cavo idealmente sospeso sopra la vita di Libera, di Izet e di Elio, i tre personaggi-chiave.

Libera è una giovane traduttrice di letteratura slavo-meridionale, innamorata di Ivo Andrić e Danilo Kiš , che decide di andare a studiare a Trieste per fuggire dall’asfittico ambiente del paese d’origine sui Colli Euganei, dove è nata, e da una famiglia definita “sbilenca” (genitori separati, nonno che fa le veci del padre). Vi è un solo luogo dove si sente in pace con sé stessa e in tregua momentanea con il mondo: a Insula, immaginario ma riconoscibile borgo marinaro dell’Istria. Qui “dormo bene”, chiarisce già nell’incipit, “quando vengo fuori stagione ritrovo il silenzio di un tempo che non esiste più”. Qui la ragazza è sedotta ogni volta da una “costa sfrangiata di sporgenze e insenature” e dal mare che “s’infila e poi si allarga come uno specchio su cui galleggiano isolotti sospesi, come barche nell’atto di salpare”. Il lirismo, lo stile fluente, la prosa curata, la capacità di introspezione psicologica, l’attenzione ai dettagli, irrompono fin dai primi capitoli. Libera è il trait d’union letterario fra il giovane studente bosniaco Izet e l’anziano esule istriano Elio, testimoni di epoche differenti ma di un identico trauma: l’esilio. Con il primo, l’inquieta giovane dei Colli Euganei ha una breve ma indelebile storia d’amore a Sarajevo, un paio d’anni prima dello scoppio della guerra in Bosnia e del lungo assedio della capitale. Con il secondo, nasce un’intesa spirituale muta e tenace, alimentata dalle note vaganti di struggenti canzoni intonate dal vecchio, che raggiungono Libera quando esce per andare a correre e tuffarsi poi a nuotare.

Racconta a un certo punto – siamo nel primo decennio del nuovo secolo –  un Izet ormai uomo fatto e con una nuova vita ripiantata in Olanda: “Sono un esule, ho perso il passato, ho perso lo spazio dove esisteva il mio passato. La poesia mi aiuta a non farmi sopraffare dall’oblio. Non riesco a trovare interesse in nient’altro se non nella ricerca di una lingua in grado di evocare la perdita”. Ma è Elio a raffigurare, simbolicamente, il senso di smarrimento universale che l’uomo prova davanti alla violenza della storia, ieri come oggi.  All’amico di infanzia Virgilio, italiano come lui (e sua voce narrante nel romanzo) ma rimasto a vivere nella nuova Jugoslavia di Tito, declama guardando il mare: “Non ci negano la luce, non siamo relegati all’inferno, ma esiste condanna peggiore di restare sospesi in eterno? Esiste una condizione più greve di una vita di desiderio senza speranza?”. E aggiunge: “Li vedo in televisione, lunghe colonne di profughi, occhi impauriti come i miei, come i nostri di allora, quando anche noi siamo scappati dai nostri paesi. Disperati, tutti in fila diretti verso il loro limbo, ad attenderli solo una finzione di esistenza, perché quella vera si è fermata dove sono rimaste le nostre vite. Poi, anche quando la guerra finirà, sarà inutile tornarci, del prima non è rimasto niente. Non ci si salva dal limbo perché è dentro di noi”. Chiara Rango dimostra di conoscere bene i vari capitoli della questione balcanica, a partire da quello che era il nostro confine orientale. Descrive l’impossibile normalità di Elio, che soffre ad ogni risveglio mattutino guardando da una finestra di Monfalcone la sua Pirano, abbandonata dopo l’orrenda stagione delle foibe titoiste, le persecuzioni dei presunti “nemici del popolo”, e la sistematica mortificazione delle popolazioni italofone. Come la delusione del “normalizzato” Virgilio, che ha creduto nel comunismo sperando di poter mantenere la propria identità in una società che di fatto gliela negava. Ma se la Jugoslavia ha tradito gli italiani, le nuove micro-repubbliche nazionaliste sorte dopo la sua scomparsa hanno tradito i cittadini ex jugoslavi ridefiniti in base a rigidi criteri etnici e religiosi. “Che cosa ci ho guadagnato?” si chiede Virgilio. “In Jugoslavia mi sentivo più sicuro, si guadagnava poco ma tutti avevamo un lavoro, una casa, l’istruzione per i figli. Se mi ammalavo, non mi lasciavano crepare in strada, magari male ma mi curavano. Cosa me ne faccio di questa libertà?”.

Gli stessi argomenti ritornano nelle recriminazioni di Marko, un croato rientrato a Mostar dopo la guerra bosniaca del 1992-95, che all’obiezione di essere un “jugonostalgico” per aver criticato i limiti e i guasti del modello capitalistico occidentale, risponde all’amico Amir, stabilitosi da tempo all’estero: “Qui Tito c’entra poco, il fatto è che adesso se ti vuoi curare e non hai i soldi sei fottuto, allora, e tu lo sai bene, tutti avevano diritto a una casa, istruzione, lavoro e salute. C’erano biblioteche in ogni infimo buco del paese, tutti potevano accedere alla cultura”.

Considerazioni analoghe affiorano, a ben pensarci, sempre più spesso anche oggi da noi, se guardiamo al progressivo smantellamento dello stato sociale in atto negli Stati democratici neo-liberisti. Anche Libera, che a volte sembra la “vox occulta” di Chiara, è combattuta di fronte a un dilemma pesante: “Non riuscivo a trovare un equilibrio fra chi considerava il comunismo la peggior iattura per un paese, responsabile del suo disastro economico, e le profonde contraddizioni che attraversavano le ‘democrazie’ capitaliste”. La sua risposta ha l’astrattezza e insieme il coraggio degli ideali: “Allora mi chiedevo se fosse utopia immaginare uno spazio coerente dove far convivere l’egualitarismo, senza sopprimere l’individualità”.

Concordiamo, in definitiva, con quanto scrive nell’aletta di “Nel limbo sospesi” lo scrittore fiumano, di origini partenopee, Giacomo Scotti, che nel 1947 fece la scelta controcorrente di andare a vivere e lavorare nella nuova Jugoslavia di Tito: “La memoria va conservata, ma non per sostenere le distanze, le separazioni e gli odi. La scrittura di Chiara Rango è uno specchio di terre, coste e mare”.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

2 COMMENTS

  1. Con una recensione così, non c’è scampo: bisogna leggerlo questo “Nel limbo sospesi”! E il titolo e l’argomento come magistralmente lo sintetizza Di Donato mi fa venire in mente uno dei saggi della raccolta “Il collezionista di paure”, di Goran Vojnovic: ‘Gente di un tempo sospeso’. Sono i sopravvissuti alla strage di Srebenica, la madri che hanno perso i figli, le spose che hanno perso i mariti, le sorelle che hanno perso i fratelli. Per loro, il mese di luglio del 1995 dura ancora oggi. Il tempo in loro si è fermato. Sono le persone che vivono nel tempo sospeso. Rimaste intrappolate in un ricordo vecchio di vent’anni, in un dolore che non si attenuerà mai.

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