“Venezia è una Repubblica mercantile fondata sul lavoro.”Chissà se le prime parole di un’ipotetica moderna Costituzione della Repubblica Serenissima sarebbero state qualcosa di simile. È solo un esercizio di immaginazione, naturalmente, ma forse non troppo lontano dalla realtà. Tuttavia cosa puo’ significare “Lavoro” in questo contesto?

La cultura commerciale e imprenditoriale degli ex territori della Serenissima è una delle sue più tangibili eredità sociali, sopravvissuta a decenni di lavaggio del cervello collettivo operato dall’Impero Austro-Ungarico prima e dal Fascismo poi. Questa latente quanto radicata eredità culturale, imperniata sulla celebrazione (se non addirittura il culto) del Lavoro ha portato allo sviluppo di un particolarissimo scenario socio-economico in cui lavoratori e proprietari consideravano sé stessi come elementi complementari di una stessa realtà, commilitoni che a prescindere dai diversi gradi di responsabilità condividono la stessa barricata e lo stesso destino.

Questo ha portato a conseguenze molto tangibili: su tutte il fatto che la divisione della società in classi sociali economiche ha trovato in tale scenario un ostacolo molto rilevante al proprio sviluppo: una gestione essenzialmente conflittuale e antagonistica delle relazioni industriali faceva fatica a trovare un proprio spazio in una cultura economica che, in linea di massima, vedeva lavoratori e proprietari unire le proprie forze per perseguire obiettivi condivisi. Il lavoro non solo come funzione della sussistenza e del benessere, ma come collante sociale e come elemento fondante di un valore e di una identità collettivi.

L’orgoglio di sentirsi partecipanti attivi di questo sistema non viene tuttavia senza pagare un prezzo. Le tematiche legate ad una gestione e sviluppo positivi di un percorso di carriera individuale venivano subordinate, nella maggior parte dei casi, al bisogno del meccanismo produttivo collettivo di procedere ben oliato e senza intoppi.

Detto in termini più diretti: la richiesta di un aumento retributivo, se proprio andava affrontata, andava portata all’attenzione diretta del “Paron” in un dialogo quasi più personale che professionale – ma guai a portare in azienda qualcosa anche solo vagamente simile ai Sindacati, pena il venire etichettati come “porta guai”. E questa etichetta sarebbe arrivata innanzitutto dal proprio giudizio, prima che da quello degli altri. Va da sé che questa attitudine all’ “auto sacrificio”, portata all’estremo, ha fatto anche del male oltre che del bene poiché ha in buona parte impedito lo sviluppo di una razionale consapevolezza, se non di “classe”, quantomeno del proprio valore e dei propri diritti. A corollario di cio’ va aggiunta una generale difficoltà, per usare un termine leggero, delle organizzazioni politiche di Sinistra a comprendere questo contesto, penetrarlo e intervenirvi attivamente. Se questo era vero negli anni del boom economico quando la Sinistra italiana era una forza politica che spaventava la CIA, è tristemente ancora più vero in questo primo quarto di Ventunesimo secolo in cui il tessuto economico è in frantumi e la Sinistra italiana cerca la propria identità perduta andando a pranzo da Eataly.

Infine, il pregiudizio verso le nuove forme di lavoro, che comportano cesure senza ritorno con il passato, difficilmente puo’ contribuire ad un’evoluzione socio-economica. Per decenni i prototipi del “Lavoratore” del nordest sono stati figure quali l’esperto saldatore di lastre d’acciaio e l’esperto assemblatore di impianti idraulici, uomini “con un mestièr in màn” che arrivavano al lavoro alle 06:30 del mattino e tornavano a casa alle 08:00 della sera, vivendo per il lavoro e obbedendo al Paron senza fare un fiato. Il loro mestiere produceva risultati concreti e avveniva all’interno di una struttura organizzativa chiara e tangibile.

Grande è quindi la difficoltà a far trovare posto in questo scenario, ad esempio, al giovane programmatore informatico che per 12 ore al giorno lavora da casa alla creazione di una App per un cliente Finlandese che probabilmente non vedrà mai e interfacciandosi in videoconferenza con dei manager basati a Milano e a Ginevra che altrettanto probabilmente vedrà forse una volta l’anno. Eppure quel giovane programmatore ha passato anni a studiare e a fare esperienza per avere anche lui il suo “mestier in màn”: fosse nato trent’anni prima sarebbe forse diventato un esperto di elettromeccanica, ma poiché vive nel 2023 sta solo adattandosi meglio che puo’ alla direzione in cui va il mondo.

Tutti gli elementi fin qui descritti hanno contribuito a consolidare il contesto socio-economico del Nordest, fu Repubblica Serenissima, ma se non si fa seria attenzione ai segnali della Storia e non si accetta la necessità di evolvere, quegli stessi elementi contribuiranno alla sua morte fredda.

Enrico De Zottis
Enrico De Zottis Nato a Venezia nel 1987 e cresciuto a Mogliano Veneto, da oltre un decennio si occupa professionalmente di Gestione delle Risorse Umane presso aziende multinazionali. Ad oggi vive e lavora a Lione (Francia). Nel tempo libero si dedica allo studio di tematiche socio-economiche, oltre che alla musica e al trekking. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a Padova e un Master in Analisi Economica a Roma.

1 COMMENT

  1. Sacrosanto! Però scusa, senza nulla togliere allo smart working (a me salva la vita!).
    Sono ben consapevole che la questione di cui tratti esista, e che abbia il suo peso (negativo) sulle potenzialità innovative.
    Ma al momento mi chiedo se non sia il caso di quantificare i “giovane programmatore informatico che per 12 ore al giorno lavora da casa alla creazione di una App per un cliente Finlandese che probabilmente non vedrà mai e interfacciandosi in videoconferenza con dei manager basati a Milano e a Ginevra che altrettanto probabilmente vedrà forse una volta l’anno”, altrimenti rischiamo di inseguire mode comunicative poco o nulla aggiungendo alla reale comprensione della questione

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