Le immagini della Romagna, del suo dramma e dei suoi morti non colpiscono solo per la loro tragicità, ma perché sono passate davanti ai nostri occhi troppo spesso negli ultimi anni. Un film che abbiamo visto almeno nelle Marche, in Sicilia, in Calabria, in Veneto, in Toscana, in Liguria. Le stesse cause: la cementificazione, la mancata prevenzione, la fragilità del territorio, l’incuria delle aree a rischio. Tragedie in cui, è bene dirlo, nessuno è innocente: chi ha costruito per sé, chi ha costruito per speculare, chi ha dato le concessioni, chi ha permesso i condoni, chi non ha vigilato, chi ha legiferato in maniera sbagliata. Diverse responsabilità, ma la colpa va distribuita tra tutti questi soggetti. In cima alla catena ci sono ovviamente i cambiamenti climatici, che però arrivano ben ultimi a complicare un quadro già compromesso.

Ormai da decenni sappiamo cosa serve per combattere il dissesto idraulico e geologico. Non è un male incurabile: ci sono medici, diagnosi e prognosi. Abbiamo nominato commissioni, istituito Autorità di Bacino, approfondito le criticità, trovato le possibili soluzioni tecniche. Mancano le risorse, si dice. Ma da qualche parte bisogna pure iniziare. I numeri del piano per la messa in sicurezza del territorio sono noti da anni. Numeri che sono spaventosi solo se li consideriamo dei costi e non degli investimenti. Quanto paghiamo ogni anno per le emergenze, per i danni materiali ai privati, per i risarcimenti, per le interruzioni dei servizi, per la ricostruzione delle opere pubbliche? Quanti sono i costi ambientali e sociali, oltre che economici, di tragedie come quella della Romagna?

I soldi, a volerli trovare e a poterli usare, ci sono. A patto che ci sia anche la volontà politica per avviare questo piano. O almeno che ci sia la volontà da parte della politica di non litigare anche per individuare il commissario che deve gestire i fondi. Il fatto è che esistono opere che si vedono e opere che non si vedono. Quelle che si vedono portano consenso e voti. Quelle che non si vedono – le opere contro il dissesto idrogeologico – sono quelle più utili, ma non vengono inaugurate con tagli di nastro e fanfare. A volte insistono su più comuni. È evidente che, stando così le cose, molti soldi non verranno spesi.

Poi c’è il consumo di suolo. L’Italia è un Paese di santi, poeti, navigatori e costruttori. È cresciuta a pane e cemento. Ora deve cambiare dieta. Non perché lo impone la crisi. Anzi, questo cambio di passo può essere una risposta micidiale alla fame di lavoro e alla fase di difficoltà del settore edilizio. Solo intervenendo sull’esistente, senza un metro quadro e un metro cubo in più, si possono recuperare migliaia di edifici, riqualificare interi quartieri, ridare luce ai buchi neri delle nostre città.

Infine un appunto sulla solidarietà. Quella degli italiani è proverbiale, non si fa mai attendere in occasione di queste grandi tragedie. Sono gesti che dovrebbero essere spontanei. Tuttavia ho l’impressione che la solidarietà delle persone che donano in buona fede, stia diventando una tassa sull’inefficienza della nostra classe dirigente, sui mancati interventi di prevenzione, sull’abusivismo come pratica comune. Un Paese non può funzionare se i cittadini sono chiamati continuamente a porre rimedio agli errori di chi amministra e di chi governa, a dare il loro obolo volontario a chi soffre dopo aver pagato tasse e imposte per prevenire questi drammi. Bisogna essere solidali nella tragedie, ma iniziare a essere spietati contro chi le provoca.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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