Curioso come gli eventi influenzino la nostra percezione del passare del tempo. Il 2008 non è stato che 15 anni fa, eppure il mondo è cambiato talmente in questo arco di tempo che sembra enormemente più lontano. In quell’anno, la generazione oggi chiamata “Millennial” era per lo più impegnata a studiare, alternando i libri a qualche sport, videogioco o alle puntate di serie TV come “How I Met Your Mother”, mentre le radio e MTV passavano incessantemente “No One” di Alicia Keys e “Viva La Vida” dei Coldplay. I più tecnologicamente avanzati cominciavano ad esplorare uno strano, intrigante nuovo mondo virtuale chiamato “Facebook”. Generalmente parlando, non molti tra coloro che al tempo erano classificati come Giovani prestavano particolare attenzione alle notizie che arrivavano sulle tempeste economiche in corso negli Stati Uniti. Eppure, ascoltate o ignorate che fossero, quelle notizie continuavano ad arrivare con sempre maggiore insistenza: la banca Bear Stearns è fallita, il gruppo IndyMac è collassato, il gigante finanziario Lehman Brothers è imploso…

Gli eventi di quei mesi sarebbero passati alla storia come “la Grande Recessione del 2008”, vale a dire il più colossale fallimento del sistema economico capitalistico moderno dai tempi della Grande Depressione del 1929. In prima linea ad assistere a questo sfacelo, come muti spettatori di un esperimento atomico condotto nell’oceano, erano proprio quei giovani così pigramente ignari – i Millennial. Una generazione cresciuta a biscotti Mulino Bianco, kolossal Walt Disney e sogni di individualismo consumistico, pronta a diventare la nuova classe dirigente di una società che dal 1945 aveva conosciuto solo la realtà di un benessere continuo e crescente. Quella generazione si trovava ora, improvvisamente, privata delle opportunità e del futuro che aveva dato per scontati. Modelli di vita ripetuti da generazioni, e mai messi realmente in discussione, erano ora diventati obsoleti e da riscrivere. Certo una cosa del genere non sarebbe potuta avvenire da un giorno all’altro, e nemmeno da un anno all’altro. Chi ha cominciato la propria carriera lavorativa in quel periodo ricorda bene, e forse ricorderà sempre, il desolante panorama che aveva davanti e in cui la società gli chiedeva di immergersi per trovare un ruolo e dare il proprio contributo – come sempre era stato, cioè. Aziende sul costante orlo del fallimento che proponevano formule di assunzione che erano capolavori di creatività, allo scopo di mantenersi flessibili e tagliare i costi del personale qualora necessario, e livelli retributivi talmente infimi che risultava difficile anche farci sopra dell’ironia. Ciononostante i “millennial” entravano in tutto ciò accettando pressoché qualsiasi cosa, per il banale principio che non c’erano apparentemente alternative. C’era la speranza che le cose sarebbero prima o poi migliorate, certo, e c’era la voglia di mostrare il proprio valore. Ma c’erano anche la frustrazione, la paura, a volte la vergogna e sempre più spesso lo strisciante sospetto che no, forse le cose non sarebbero migliorate – non stavolta. Il mondo era cambiato. Bisognava trovare soluzioni nuove, inventare nuovi sentieri di vita: per fare questo bisognava continuare a stringere i denti, continuare a provare e a farsi male combattendo in quel campo di battaglia che, con un certo gusto per lo humour nero, è stato battezzato “mercato del lavoro”. E intanto la sera tornare a rifugiarsi dentro ad una serie TV, provando a nascondersi dalla realtà per qualche decina di minuti.

Gli anni passavano, i millennial diventavano sempre meno giovani e sempre più adulti, e insieme all’aumentare dei loro anni aumentavano le loro cicatrici e delusioni – ma anche la loro esperienza. I timidi, spaventati stagisti di un tempo erano ora professionisti, lavoratori qualificati e maggiormente consapevoli. La frustrazione non era passata, e forse nemmeno la paura: il valore assoluto e indiscutibile del titolo di studio come credenziale per una carriera non era più una cosa data, la linearità laurea-lavoro-mutuo per la casa non era più una cosa data (anzi), sviluppare l’intero proprio percorso lavorativo in un’unica realtà era ormai solo un pallido ricordo. Ma in parallelo a frustrazione e paura era maturato anche il desiderio di non essere vittime e di prendere in mano il controllo della propria vita, perché anche il più spaventato degli uomini dopo un po’ si stanca di prendere bastonate e impara a scansarsi quando vede il colpo arrivare. Ecco quindi che gli ex giovani, ora adulti, sviluppano la consapevolezza tanto semplice quanto fulminante che non possono più sperare di contare sulla protezione di una “rete sociale”, come era stato per coloro che li avevano preceduti. La “rete” andava ricreata da zero, ognuno tessendo il proprio piccolo pezzo tramite lo sviluppo minuzioso e a volte maniacale delle proprie competenze lavorative – l’unico vero strumento di concreta e volontaria reazione alla realtà moderna. I millennial hanno imparato l’importanza di conoscere cose come la gestione finanziaria e degli investimenti, le forme di previdenza sociale integrativa, le assicurazioni sanitarie private – concetti un tempo appannaggio forse solo delle classi sociali più ricche e passati dall’essere un prezioso “qualcosa di più” all’essere un necessario “qualcosa di base”. Una delle conseguenze più eclatanti, e forse col senno di poi più ovvie, di tutto questo è l’aumento dei lavoratori che espatriano. Difficile stupirsene, d’altra parte. Un’intera generazione, privata a suo tempo delle opportunità di costruire il proprio futuro, sta scegliendo di sopravvivere e di non affondare, e per fare ciò sempre più spesso guarda ad altre realtà nazionali che possono offrire delle migliori basi di partenza per costruire la propria vita. Il sistema economico ha imposto ai “Millennial” di diventare freddi, cinici e calcolatori, se non addirittura spietatamente egoisti nel perseguire i propri interessi – ora il sistema economico si assuma le responsabilità delle inevitabili conseguenze. I governanti faranno bene a prestare attenzione a questa nuova realtà, e dovranno capire che se vogliono recuperare le “risorse” (per usare un termine coerentemente freddo e calcolatore) che stanno perdendo non basteranno vecchie idee come gli incentivi fiscali per il rientro dei cervelli. Servirà una nuova cultura, cosa che difficilmente chi governa è in grado di concepire e promuovere – soprattutto al giorno d’oggi.

Fino ad allora, gli ex giovani nuovi adulti continueranno a perseguire i propri obiettivi, ambizioni e speranze nei luoghi e modalità che troveranno più congeniali, determinati a resistere e a non affondare. E tornando ogni tanto ad ascoltare “Viva La Vida”, concedendosi per un istante di ricordare un mondo passato.

Enrico De Zottis
Enrico De Zottis Nato a Venezia nel 1987 e cresciuto a Mogliano Veneto, da oltre un decennio si occupa professionalmente di Gestione delle Risorse Umane presso aziende multinazionali. Ad oggi vive e lavora a Lione (Francia). Nel tempo libero si dedica allo studio di tematiche socio-economiche, oltre che alla musica e al trekking. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza a Padova e un Master in Analisi Economica a Roma.

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