La gestione dei flussi migratori in Italia ha sempre avuto un carattere emergenziale, senza mai arrivare a una risposta strutturata. E le risposte che fino a questo momento il governo Meloni sta dando sul tema dell’accoglienza dei migranti sono in linea con quello che è il programma elettorale dell’attuale maggioranza. L’introduzione dello stato di emergenza e la nomina di un commissario rappresentano un’ulteriore dimostrazione di questa incapacità a gestire un fenomeno complesso che va governato con responsabilità e lungimiranza. Anche in considerazione del numero degli sbarchi che sono in aumento. E purtroppo la tragedia di Cutro – oltre alla mancanza di pietas – non ha insegnato nulla.

Nelle settimane scorse numerose amministrazioni locali hanno denunciato l’incapacità dell’esecutivo di costruire delle politiche migratorie efficaci, in linea con i diritti umani fondamentali universalmente riconosciuti ai rifugiati, con il diritto internazionale e con le recenti indicazioni di richiamo della Corte Costituzionale. Gli amministratori locali, almeno quelli non vincolati direttamente o indirettamente dalla tessera della Lega o di Fratelli d’Italia, hanno sollevato dubbi giuridici e soprattutto molte preoccupazioni sul nuovo sistema di accoglienza.

La “protezione speciale”, che il governo ha tolto con il cosiddetto decreto Cutro (che ora è legge con il voto della Camera dei deputati), non costituisce un capriccio ideologico o un orpello giuridico. Si tratta di una misura attribuita finora a coloro che dimostrano di avere forti legami familiari in Italia o di essersi integrati. Che quindi tutela i migranti, ma anche chi li ospita. Ovviamente il governo esulta per il risultato, ma si tratta ora di capire come potranno essere affrontati problemi e questioni che fino a oggi sono stati risolti grazie alla concessione di questo tipo di permesso. L’eliminazione della “protezione speciale”, che molto aveva fatto in questi ultimi anni per evitare la clandestinità, le diverse forme di sfruttamento e di evasione fiscale e contributiva, costituisce una scelta pericolosa. Ed è illogico non riconoscerla alle persone che possono dimostrare un percorso d’integrazione: equivale a gettarle nell’illegalità.

Inoltre il modello SAI – il sistema ordinario di accoglienza diffusa e integrata di cui sono responsabili i comuni – subisce con questo passaggio legislativo un’ulteriore azione di smantellamento e avrà un funzione sempre più residuale. La separazione del circuito dell’accoglienza dei richiedenti asilo da quello dei rifugiati è una decisione sbagliata. Si investe su una politica di controllo e detenzione per arrivare poi alle espulsioni. Concentrare in pochi luoghi tante persone con la diffusione e il potenziamento degli hotspot e dei Centri di Permanenza per i rimpatri, significa costruire dei luoghi di detenzione informale, ben oltre i tempi di identificazione, privando quindi della libertà le persone interessate. La volontà politica è chiara: riscrivere l’intero sistema italiano di asilo, mortificando il ruolo che tanti Comuni hanno svolto in questi anni e azzerando le azioni virtuose di integrazione che sono state sviluppate. Se non si lavora invece per un rafforzamento del modello SAI si rischia si assistere alla concentrazione di grandi numeri di persone in strutture che non rispettano né le persone accolte, né i territori in cui insistono. Non si può fare integrazione senza coinvolgere i comuni e i sindaci che amministrano e tutelano i territori.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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