Dopo l’armistizio circa 716.000 militari italiani vengono catturati dalle Forze armate tedesche e deportati in campi di concentramento nei territori del terzo Reich. Rinchiusi nei lager, in 650.000 rifiutano di aderire alla Wehrmacht e, successivamente, al nuovo esercito fascista repubblicano.

Il testo del proclama Badoglio definisce in maniera chiara, anche se non esplicita, ciò che devono fare le forze armate italiane: cessare ovunque ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane e però reagire “ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. In questa frase c’è tutta l’ambiguità di quel messaggio. Al qual non seguono altre disposizioni precise di ordine pratico. Non esiste più una catena di comando.

C’è un aspetto che spesso si trascura quando si parla dell’8 settembre. Che per l’esercito italiano – anche ai livelli più alti – l’annuncio dell’armistizio è un grande rompete le righe. Nel celebre film Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini il sottotenente interpretato da Alberto Sordi telefona al suo colonnello e gli comunica che “Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani”. E la telefonata si chiude con una domanda che rimane senza risposta: “Quali sono gli ordini”?

L’8 settembre sorprende i militari italiani soprattutto al di fuori del territorio nazionale. Le grandi unità dell’esercito dislocate oltre confine comprendevano un’armata, la 4a, stanziata nel sud-est della Francia, tra la Provenza e la Savoia; il VII corpo d’armata stanziato in Corsica; la 2a armata stanziata in Slovenia, Croazia e Dalmazia, e soprattutto il Gruppo di Armate Est dislocato in Erzegovina, Montenegro, Albania, Grecia ed Egeo, alle dirette dipendenze del Comando Supremo. Stiamo parlando, considerando solo l’esercito, complessivamente di circa 690.000 uomini tra ufficiali, sottufficiali e militari di truppa.  Erano tutte unità che avevano un grado di efficienza diverso a seconda dello scacchiere. Comune a tutti i reparti era la stanchezza della guerra e l’incertezza che era intervenuta dopo la caduta del fascismo del 25 luglio.

C’è un aspetto molto importante da tenere in considerazione: fatta eccezione per l’Albania e per alcuni territori della Dalmazia e alcune isole dell’Egeo, in tutti gli scacchieri le grandi unità italiane sono affiancate da reparti tedeschi che occupano le stesse regioni, sia pure in zone di loro specifica giurisdizione. La copresenza di truppe italiane e truppe tedesche è un dato di fatto in tutti i territori di occupazione e questo spiega la situazione drammatica in cui viene a trovarsi il nostro esercito subito dopo l’annuncio dell’armistizio.

All’esultanza segue la preoccupazione, il nervosismo degli ufficiali, il disorientamento, la sensazione di esser stati abbandonati. Molti generali e ufficiali superiori delle forze schierate oltre confine sono abituati ad attendere ordini dall’alto e ad eseguirli senza discutere. Nel vuoto di potere che si è creato, gli ordini non arrivano e quindi gli ufficiali sono costretti a decidere da soli. Le opzioni sono sostanzialmente due: o resistere in armi, ed episodi di resistenza armata si registrarono un po’ ovunque, non solamente in Grecia come nel caso della divisione Acqui a Cefalonia; oppure arrendersi, consegnarsi ai tedeschi ed essere quindi destinati alla prigionia. Esiste in realtà anche una terza possibilità, ovvero continuare a combattere al fianco dei tedeschi, ma i comandanti non la prendono in considerazione, in quanto contraria all’onore militare e di fatto difficilmente praticabile.

Subito dopo essere stati disarmati ai soldati italiani venne assicurato il rimpatrio in Italia. Cosa che ovviamente non avvenne. Stando alle testimonianze di molti internati, il comportamento dei soldati tedeschi dopo la cattura e durante il viaggio fu caratterizzato da nervosismo e severità. Il vero problema furono le lunghe marce a piedi per raggiungere le stazioni e poi la fame durante il viaggio di trasferimento verso i campi. Una volta giunti in Germania i militari italiani si resero conto che la popolazione era animata da sentimenti di vendetta nei confronti degli ex alleati, considerati non solo dei traditori, ma anche dei pessimi soldati. E questa era sicuramente l’accusa più pesante e ingiusta.

Inizialmente, per una decina di giorni, vengono considerati prigionieri a tutti gli effetti. Ma il 20 settembre Hitler ordina di modificare il loro status e di trasformare questi prigionieri in internati militari (Italienische Militär-Interniert). Questo non perché si volesse punire gli italiani infidi e traditori, ma per ragioni che sono da collegare alla politica dell’occupazione nazista in Italia.  Se i militari catturati dai tedeschi avessero mantenuto lo status di prigionieri di guerra, sarebbero stati considerati prigionieri di un paese nemico, quindi del Regno del Sud e del governo guidato da Badoglio. Grazie a questo escamotage giuridico fu possibile presentare l’internamento non come una violazione del diritto internazionale, ma come una questione bilaterale tra la Germania e la costituenda Repubblica di Salò. Tuttavia, la decisione di considerare i militari italiani alla stregua di una massa da impiegare nell’economia di guerra e di non venire incontro alle richieste italiane per la ricostituzione di un grande esercito fascista con effettivi reclutati fra i militari internati in Germania, non fece altro che evidenziare il ridotto margine di manovra di Mussolini e fu interpretata dal governo di Salò come una pesante limitazione alla propria sovranità.

La scelta di non aderire alla Repubblica sociale matura in un contesto di sofferenza, di paura, di angoscia. In tutti c’è la volontà di non contribuire alla prosecuzione della guerra a fianco dei nazifascisti. Ma le ragioni della scelta cambiano a seconda dei soggetti. Per i militari di truppa questa scelta è più istintiva, spontanea e indotta spesso dalla diffidenza verso i vecchi alleati e dalla subalternità alla quale erano stato costretti fino all’8 settembre. Invece gli ufficiali si rifiutano di collaborare soprattutto per difendere la propria dignità, il proprio onore militare, il giuramento alle istituzioni e alla monarchia, l’orgoglio nazionale. Sono pochi coloro che non aderiscono in virtù di coscienza democratica e antifascista. Ci sono ovviamente delle eccezioni come Giuseppe Lazzati, Alessandro Natta, Antonio Cederna, Giovannino Guareschi, Mario Rigoni Stern. Ma costituiscono una parte minoritaria. Nobile, ma numericamente minoritaria. I pochi che si arruolarono nei servizi ausiliari della Wehrmacht o nell’esercito di Salò lo fecero o per convinzione e fede fascista, oppure spinti dal desiderio di sfuggire alla fame e agli stenti dei lager e dal miraggio di poter riabbracciare presto i loro cari.

Verso la metà del 1943 all’economia di guerra tedesca mancavano un milione e mezzo di lavoratori, in particolare in settori come l’industria mineraria e per la produzione bellica. Quindi la Germania – che peraltro aveva difficoltà a reperire operai specializzati sia all’interno che nei territori occupati – poté utilizzare quasi 450.000 internati italiani come manodopera nelle miniere e nell’industria di guerra e, in misura minore, nell’industria pesante e nel settore delle costruzioni. Tuttavia, il trattamento riservato agli IMI oscillò sempre tra propositi di rappresaglia e sfruttamento economico. Da un lato si voleva punirli come traditori, dall’altro si voleva sfruttare al massimo il loro potenziale lavorativo. Solo dalla primavera del 1944 cominciarono a imporsi criteri basati su valutazioni di ordine economico per aumentare la loro produttività.

Nel luglio 1944 Hitler trasformò lo status degli IMI in quello di lavoratori civili. Alla base della scelta vi furono ragioni di carattere economico e questo coincise con l’adozione di misure eccezionali in vista della guerra totale. Secondo le autorità naziste era l’unico modo per garantire un trattamento in grado di elevare sensibilmente la produttività dei prigionieri. Il cambiamento di status, del resto, sarebbe servito anche alla Repubblica di Salò per mascherare il carattere coercitivo dell’impiego dei militari italiani, destinato a durare sino alla fine della guerra. Gli internati accolsero questo nuovo status in maniera positiva. Si allentarono le misure di sorveglianza, alloggiarono in posti più vicini ai luoghi di lavoro, in molti casi migliorarono le condizioni alimentari, aumentarono i contatti con la popolazione locale che erano stati problematici fin dall’inizio. Ovviamente questi vantaggi non riguardarono tutti gli ormai ex internati, e furono spesso annullati o vanificati dal quadro generale di una Germania che, tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, era ormai avviata verso la catastrofe finale.

Per molti internati resistere all’interno dei campi significa riscattare la propria condizione di prigioniero e in fin dei conti l’idea stessa di nazione. L’amore per la patria è uno degli elementi che ritroviamo in numerose testimonianze, soprattutto di ufficiali. In altri casi è il pensiero della famiglia lontana a rafforzare lo spirito di sopportazione. Tutti gli internati sono comunque impegnati ad elaborare da un lato delle strategie di sopravvivenza per rendere meno pesante la loro condizione, dall’altro delle forme di resistenza passiva attraverso un basso rendimento sul lavoro oppure dei tentativi di fuga. Tuttavia, iniziative individuali o di piccoli gruppi, che non assunsero mai le dimensioni di una resistenza collettiva. Un’eccezione ci fu nel febbraio 1945, quando un gruppo di 214 ufficiali internati nel lager di Wietzendorf, costretti al lavoro coatto in un campo d’aviazione tedesco, incrociano e braccia e sfidano la Gestapo e le SS. 21 di loro sono prelevati a caso per una sommaria decimazione, ma 44 ufficiali si offrono volontari per sostituirsi ad essi, disposti anche ad essere fucilati pur di non lavorare per la Germania. Dopo un’estenuante attesa, la pena capitale viene commutata nel carcere a vita, da scontare nel durissimo campo di Unterlüss.

I prigionieri italiani catturati dagli anglo-americani godettero di un trattamento sicuramente migliore. Parliamo in questo caso di circa 530.000 prigionieri destinati ai campi allestiti in Medio Oriente, in India, in Kenia, in Sudafrica e ovviamente negli Stati Uniti. Molti di loro tra il 1943 e il 1944 chiesero di dichiararsi “collaboratori” e di schierarsi con il governo Badoglio. Una scelta che modificò le condizioni della prigionia, soprattutto per quanto riguarda il lavoro. Più duro fu il trattamento inflitto ai circa 40.000 prigionieri in mano francese e internati nei campi del Nordafrica.

Diverso invece il discorso per i prigionieri catturati dai russi dopo la disfatta dell’Armir. Tra le tante prigionie nessuna superò in orrore e morte quella di Russia: su 70.000 militari ne sopravvissero alle marce, al freddo e alla fame solo 10.000.

I rimpatri degli ex internati italiani ebbero inizio sotto il controllo alleato a partire dalla metà di maggio del 1945. In due settimane rientrarono in Italia circa 100.000 ex internati – provenienti soprattutto dalla Germania meridionale – un numero che però mandò rapidamente in crisi le strutture logistiche, di accoglienza e assistenza. I rimpatri quindi proseguirono a rilento, anche perché la precedenza venne data ai prigionieri degli Alleati. In media tra la liberazione e il rimpatrio passarono non meno di 4-5 mesi. Circa 400.000 ex internati rientrarono comunque in Italia entro l’ottobre del 1945, altri 200.000 entro il dicembre del 1945. I rimanenti rimpatriarono nel corso del 1946, soprattutto quelli che si trovavano nella zona di occupazione sovietica.

Gli ex internati, ma anche i prigionieri di guerra degli Alleati, al loro rimpatrio trovarono un’Italia profondamente diversa da quella che avevano lasciato qualche anno prima. I reduci dai campi di prigionia erano percepiti come dei vinti, che avevano perduto la loro guerra. Erano l’immagine della nazione sconfitta, il simbolo vivente della disfatta militare. Il reinserimento nel tessuto sociale e nel mondo del lavoro fu problematico. Molti non poterono riprendere la loro attività perché fortemente provati nel fisico dall’esperienza della prigionia. E i sussidi elargiti a partire dal gennaio del 1946 dal ministero dell’Assistenza postbellica furono una misura del tutto insufficiente. Nel dopoguerra la polarizzazione tra Resistenza e nazifascismo impedì una valutazione corretta della vicenda degli IMI, considerati figli di un dio minore. Venivano guardati con diffidenza anche dai partiti antifascisti e l’accusa più infamante che dovettero respingere fu quella di collaborazionismo.

A differenza della Resistenza la loro vicenda non si prestava a costituire il fondamento legittimante e unificante della nuova realtà statuale italiana. Anche per questo motivo molti di loro passarono sotto silenzio l’esperienza della prigionia, perfino all’interno della famiglia. Solo a partire dalla fine degli anni Settanta, con il riconoscimento della qualifica di Volontari della libertà, ottennero una tardiva riabilitazione.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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