Non viviamo in una parte del pianeta dove ci sono estese foreste con le piante che  durante il processo di traspirazione rilasciano vapore acqueo dai piccolissimi pori presenti sul lato delle foglie e, a proposito di siccità, in grado di provocare con il vapore acqueo immesso nell’atmosfera e prodotto dalla fotosintesi nuvole e pioggia auto prodotta.

Viviamo in una parte del pianeta dove negli ambienti “urbanizzati” e “semi urbanizzati” si tagliano alberi di settanta o ottant’anni perché le foglie danno fastidio.

Ma non vorrei soffermarmi sul valore ecosistemico degli alberi e delle foglie, quanto piuttosto sulla cattiva percezione di tanta parte della gente comune sul loro valore e sul valore  del suolo su cui crescono. Tale “cattiva percezione” viene assecondata dagli amministratori pubblici, i quali, in funzione del “bisogno di cemento e asfalto” delle lobby delle infrastrutture e delle costruzioni, molto spesso, strumentalizzano la paura dei cittadini preoccupati per l’eventualità che un albero, sradicato da un vento impetuoso, possa cadere  in testa ai passanti.

Infatti, i motivi più ricorrenti per giustificare l’abbattimento degli alberi, che sono diventati, per effetto dell’emergenza climatica in atto dei “beni comuni” da salvaguardare, fanno riferimento alla “sicurezza” di cose e persone e al bisogno della “crescita” del PIL con tutto il suo corollario di cemento e asfalto. “Sicurezza” e “sviluppo”,  queste sono le parole d’ordine  che accompagnano l’abbattimento degli alberi e la “narrazione dominante” sulla loro “pericolosità”. La “deforestazione urbana” in atto nelle nostre città e nei nostri paesi (e stendendo un “velo luttuoso” su quello che  accadeq in nome della transizione energetica nei nostri boschi) sta avvenendo a ritmi sostenuti, sorretta, in molti casi, da motivazioni astruse, inconsistenti dal punto di vista di una “corretta arboricoltura” e in aperta contraddizione con “l’emergenza climatica”.

Gli amministratori non accettano l’auspicabile cambiamento sulla “natura giuridica” di un “bene comune” quale dovrebbe  essere considerata la “vegetazione nei contesti urbani”. Illuminante la vicenda dei coraggiosi proprietari che si sono opposti all’ordinanza del Comune di Pont Canavese per l’abbattimento di un abete rosso alto 29 metri presente nel loro giardino e motivata da una perizia del comune, con il parere favorevole dei carabinieri forestali, che ravvisava un “pericolo imminente” per la pubblica incolumità.

Successivamente veniva anche respinto il ricorso al Tar da parte dei proprietari del giardino privato su cui insisteva l’albero. A quel punto i proprietari si sono appellati al Consiglio di Stato, forti di una “consulenza indipendente” da loro commissionata che dimostrava la totale “mancanza” di un “grave e imminente pericolo” per la pubblica incolumità. Il Consiglio di Stato, dopo aver ordinato a sua volta una perizia che documentava come il rischio si collocasse al di sotto delle normali soglie di tolleranza ALARP (As low reasonably possibile), dichiarava “accettabili” i “livelli di rischio” (alla luce dei protocolli riconosciuti a livello nazionale ed  internazionale) dichiarando che  le motivazioni del comune non si riferivano alla “statica dell’albero” ma ad un possibile danno causato da un’eventuale futura caduta.

Bisogna, sulla “narrazione dominante” che accompagna lo “sterminio degli alberi cittadini”, posare uno “sguardo ribelle”,  invocando il carattere di “bene comune” degli alberi e l’urgente necessità di considerarli “singoli elementi vitali” di una grande e diffusa  “infrastruttura verde” da tutelare, mantenere e far crescere di quantità, dove gli alberi devono essere curati uno ad uno, così come si fa per la manutenzione di una caldaia, di una stufa, di un caminetto. 

La “deforestazione urbana” sta accompagnando la “cementificazione” e il “consumo di suolo” nelle aree urbanizzate, dove gli spazi verdi residui sono già limitatissimi con tutte le conseguenze sulla qualità dell’aria, sulla temperatura estiva e le ondate di calore, sul mancato assorbimento dell’acqua meteorica: tutti effetti che fanno venire meno le condizioni future di una sana vivibilità della popolazione e la mitigazione degli eventi climatici. Senza la salvaguardia del “patrimonio arboreo esistente”, appaiono  inefficaci e inconsistenti  anche le  piantumazioni propagandistiche a favore di telecamera di nuovi alberelli, destinati  a rinsecchirsi al manifestarsi dei primi segnali  di siccità.

Il dottor Daniele Zanzi, agronomo, ci ricorda che ci vorrebbero decine e decine  di nuove piante per catturare la stessa quantità di carbonio che nell’oggi una pianta di 50/60 anni  è in grado di trattenere. Se poi la legna di quella pianta la si brucia si finisce  per rimettere il carbonio catturato in atmosfera raddoppiando l’effetto climalterante.

Gli alberi sono qualità della “vita sana”. Gli alberi sono “qualità del paesaggio”. Gli alberi sono “qualità dell’ambiente”. 

Sul “bisogno di sicurezza” dobbiamo “capovolgere” la nostra “visione”. Un albero  oggetto di “cura e manutenzione costante” sarà meno vulnerabile se lo si fa potare da personale esperto, non lo si fa oggetto di barbare “capitozzature” (tagliando tutte le sue  braccia), non si intacca il suo colletto con benne e cemento e si crea lo “spazio” per le sue radici avvalendosi anche della tecnologia in grado di supportare questa operazione.

Una “diagnosi indipendente” dagli interessi dei cementificatori e non sponsorizzata da  amministratori pubblici ignoranti potrebbe comunque decretare la necessità di un taglio, seppure mirato, perché non esiste il rischio “zero”. 

Certo, gli alberi vanno censiti, monitorati, curati, va esaminata periodicamente la loro staticità uno ad uno, ma non devono essere pianificate “esecuzioni capitali” di intere alberature stradali che possono pregiudicare la fornitura di quei servizi ecosistemici che qualche nuovo alberello, se sopravviverà alla prossima siccità, non sarà in grado di erogare prima che siano trascorsi trent’anni, periodo in cui gli effetti dei cambiamenti climatici (siccità, ondate di calore, la cattura  dello smog e delle polveri sottili, l’assorbimento  dell’acqua delle piogge intense) si manifesteranno con una certa frequenza. Dobbiamo “resettare” il nostro “sguardo”, abbandonare la  semplificazione riduttiva e con essa i pregiudizi e i luoghi comuni sulla “pericolosità” degli alberi.

Dobbiamo pensare a tutti i benefici che gli alberi anziani ci possono fornire nel tempo dei cambiamenti climatici, alle loro funzioni ecosistemiche che già ora sono in grado di elargire. Se un vento fortissimo fa cadere pezzi di grondaia,  di cornicioni,  tegole, tende, camini, lamiere, impalcature, verande, vasi di fiori posti sul davanzale, oggetti, non per questo demoliamo un intero edificio.

Senza dimenticare, a proposito del vento forte, come gli alberi, se potati ad arte diradando la loro chioma non costituiscono una minaccia e  possono svolgere una funzione di frangivento: non per niente gli antichi per fronteggiare il vento di libeccio proveniente dal mare creavano pinete lungo le coste.

Capovolgiamo la nostra “visione”: i sindaci non devono essere chiamati a rispondere “penalmente” per i danni degli alberi caduti, ma dovrebbero  rispondere “penalmente” per la mancanza di cura, manutenzione e protezione degli alberi di 40/60 anni, quelli dei cui servizi ecosistemici abbiamo più bisogno nell’oggi climatico. 

Purtroppo, più che per un albero caduto (non esistono statistiche in merito) è più facile morire di smog, di malattie cardiovascolari, di polveri sottili, tutte situazioni nelle quali gli alberi ci sono di aiuto: non sono loro i nemici della nostra salute e della nostra incolumità.

È più facile, a livello statistico, morire per essere stati colpiti da un fulmine. È più facile, a livello statistico, morire in un incidente stradale, ma non per questo rinunciamo ad usare l’automobile.

Si devono trovare le risorse finanziarie, anziché per Olimpiadi, ponti avveniristici in zone sismiche, superstrade, armi e guerre, per la “cura” e “gestione” degli “alberi esistenti” e per la piantumazione  di nuovi alberi che però solo in futuro, e non nell’oggi climatico, potranno dare il loro contributo alla nostra salute, alla nostra vita, all’ecologia del pianeta.

Dante Schiavon
Laureato in Pedagogia. Ambientalista. Associato a SEQUS, (Sostenibilità, Equità, Solidarietà), un movimento politico, ecologista, culturale che si propone di superare l’incapacità della “classe partitica” di accettare il senso del “limite” nello sfruttamento delle risorse della terra e ritiene deleterio per il pianeta l’abbraccio mortale del mito della “crescita illimitata” che sta portando con se nuove e crescenti ingiustizie sociali e il superamento dei “confini planetari” per la sopravvivenza della terra. Preoccupato per la perdita irreversibile della risorsa delle risorse, il “suolo”, sede di importanti reazioni “bio-geo-chimiche che rendono possibili “essenziali cicli vitali” per la vita sulla terra, conduce da anni una battaglia solitaria invocando una “lotta ambientalista” che fermi il consumo di suolo in Veneto, la regione con la maggiore superficie di edifici rispetto al numero di abitanti: 147 m2/ab (Ispra 2022),

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