Il “suolo agricolo” eroga diversi “servizi ecosistemici” che, in nome della “transizione energetica”,  non possono essere “messi in pausa” perché si negherebbe così, in un diabolico ossimoro, una “vera transizione ecologica”: ne consegue quindi l’obbligo, prima di procedere a nuovo consumo di suolo agricolo, almeno in una prima fase, di ricercare soluzioni alternative nell’individuazione delle superfici necessarie per l’utilizzo massiccio dell’energia solare.

È quello che prevede la direttiva comunitaria nr. 2018/2001/UE sulla promozione dell’uso dell’energia da “fonti rinnovabili” quando invita a privilegiare “l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e aree non utilizzabili per altri scopi”. Una ricerca del CNR quantifica in 500 km2 la superficie artificiale  (tetti, aree industriali, ecc.) che sarebbe necessaria per produrre 70 GW.

Nel Rapporto Ispra 2021 è stata fatta una stima della superficie potenzialmente disponibile per l’installazione di impianti fotovoltaici sui tetti e relative ipotesi sulla potenza fotovoltaica installabile.

La superficie totale degli edifici ricavabile dalla carta del suolo consumato 2020, al netto di quelli ricadenti nei centri storici la cui installazione è inopportuna per ragioni storico-paesaggistiche, ammonta a 3.481 km2. Tenendo conto delle indicazioni a livello europeo sulla percentuale dei tetti effettivamente utilizzabile per ospitare pannelli fotovoltaici, oscillante tra il 49% e il 64% di riduzione della superficie, più un ulteriore 60% di riduzione di superficie per garantire la distanza minima tra pannelli per la loro manutenzione resta una superficie netta disponibile che può variare da 682 a 891 km2. Tale superficie netta disponibile sarebbe in grado di fornire dai 66 agli 86 GW. Lo studio di Ispra, poi, in considerazione del fatto che sul 10% delle superfici artificiali possano  essere già stati installati pannelli fotovoltaici, stima la produzione di una potenza fotovoltaica compresa tra 59 e 77 GW, un quantitativo sufficiente a coprire l’aumento di energia rinnovabile previsto dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) al 2030.

Da notare che in questo calcolo sono rimaste escluse altre superfici artificiali utilizzabili, quali aree di parcheggio, aree adiacenti autostrade, aree adiacenti altre infrastrutture  e altre aree dismesse o comunque già impermeabilizzate. 

L’Italia con il 7,11% e il Veneto con l’11,87% di suolo consumato rispetto, alla media europea del 4,2%, paradossalmente potrebbero non avere l’impellente necessità di occupare suolo agricolo vista la considerevole disponibilità di superfici già artificializzate rispetto al resto d’Europa.  Il Veneto, ad esempio, con il triste primato nazionale nella cementificazione del suo territorio, potrebbe, con i suoi 92.000 capannoni (Fonte Assindustria Veneto Centro 2019) disseminati in 5.679 aree produttive presenti nei 541 comuni della regione per una superficie complessiva di 41.000 ettari di terreno, corrispondenti a 410 km2 e applicando cautelativamente dei coefficienti di riduzione della superficie effettivamente utilizzabile, fornire una “superficie artificiale” per produrre alcuni GW di energia da fotovoltaico.

La “transizione ecologica” non è solo “transizione energetica”.

La transizione ecologica esige che la “quantità” e la “qualità” dei servizi ecosistemici del suolo agricolo e naturale aumentino, “parallelamente” alla decarbonizzazione dell’energia. Se, in nome della transizione ecologica, consumiamo suolo agricolo per produrre energia rinnovabile senza aver prima esperito altre soluzioni, finiremmo per buttare  via il bambino con l’acqua sporca.

Secondo la Coldiretti di Rovigo in 25 anni il Veneto ha perduto il 28% di terra coltivabile. Nel 2017 una ricerca Confagricoltura evidenziava come il nostro paese disponesse di una “superficie agricola utilizzabile” inferiore del 45% rispetto alla Francia e del 50% rispetto alla Germania. Il rapporto Ispra 2019 stimava, tra il 2012 e il 2018, in 3 milioni di quintali i prodotti agricoli che avrebbero potuto fornire le aree perdute per strade, abitazioni, capannoni, centri commerciali, poli logistici, supermercati, parcheggi.

L’obiettivo del raggiungimento della “sovranità alimentare”, anche in considerazione delle sue molteplici valenze ambientali, economiche e sanitarie, non può essere rimosso da una transizione ecologica di tipo “tecnocratico”. La rimozione di tale obiettivo non ha solo un contraccolpo sulla bilancia dell’import/export alimentare, visto che importiamo il 55% di grano duro e il 45% di grano tenero, ma comporta anche la rinuncia a pensare a un’agricoltura diversa. Il peso degli “allevamenti intensivi” nei tempi della pandemia deve essere drasticamente ridotto perché secondo l’EFSA (l’autorità per là sicurezza alimentare) il 75% delle nuove malattie che hanno colpito l’uomo negli ultimi 10 anni è stato trasmesso da animali e perché i casi di “influenza aviaria” sono in crescita in Europa. E, come se non bastasse, gli allevamenti intensivi sono la seconda causa di inquinamento da “polveri fini” in Italia. Secondo uno studio dell’Ispra, infatti, riscaldamento e allevamenti sono responsabili rispettivamente del 38% e del 15,1% del particolato PM 2,5 della penisola. In altre parole, lo stoccaggio degli animali nelle stalle e la gestione dei reflui inquina più di automobili e moto (9%) e più dell’industria (11,1%). L’edificio della transizione ecologica necessità che il primo mattone sia “l’arresto immediato di consumo di suolo”, senza se e senza ma.

Deve aumentare la superficie agricola per seminativi destinati all’alimentazione umana e per una zootecnia a campo aperto per contenere il rischio del “salto di specie” dall’animale all’uomo. Per questa ragione la transizione ecologica non può passare  attraverso la riduzione a cuor leggero della S.A.U. superficie agricola utilizzabile”. Vanno percorse tutte le strade alternative al consumo di suolo agricolo visto che, malauguratamente, alcune regioni come il Veneto e la Lombardia, nella loro declinazione dello sviluppo, hanno creato una estensione di superfici artificiali che possono essere utilizzate per la produzione di energia rinnovabile. Anche se lo sguardo dei media va altrove, diventando il nostro sguardo distratto, non è difficile da comprendere.

Dante Schiavon
Laureato in Pedagogia. Ambientalista. Associato a SEQUS, (Sostenibilità, Equità, Solidarietà), un movimento politico, ecologista, culturale che si propone di superare l’incapacità della “classe partitica” di accettare il senso del “limite” nello sfruttamento delle risorse della terra e ritiene deleterio per il pianeta l’abbraccio mortale del mito della “crescita illimitata” che sta portando con se nuove e crescenti ingiustizie sociali e il superamento dei “confini planetari” per la sopravvivenza della terra. Preoccupato per la perdita irreversibile della risorsa delle risorse, il “suolo”, sede di importanti reazioni “bio-geo-chimiche che rendono possibili “essenziali cicli vitali” per la vita sulla terra, conduce da anni una battaglia solitaria invocando una “lotta ambientalista” che fermi il consumo di suolo in Veneto, la regione con la maggiore superficie di edifici rispetto al numero di abitanti: 147 m2/ab (Ispra 2022),

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