Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”.  Nelle memorabili e meste parole con cui Alcide De Gasperi iniziò il suo discorso alla Conferenza di pace di Parigi il 10 agosto 1946, in un ambiente a lui politicamente sfavorevole, traspare anche la garbata ironia di uno statista lungimirante e realista. Il leader democristiano era chiamato infatti a rappresentare un Paese dalla doppia faccia: una, prima dell’8 settembre 1943, in camicia nera e moschetto, e una, dopo l’Armistizio, con i pantaloni corti della democrazia. Il presidente del Consiglio della neonata Repubblica italiana era ben consapevole, infatti, come da lui stesso riconosciuto davanti alle potenze vincitrici, di portarsi cucita addosso la “qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato”, ma di poter rivendicare al tempo stesso la “responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista”. Fermamente deciso a traghettare la nuova Italia “verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire”. Esattamente cinque mesi dopo, il 10 febbraio 1947, si arrivò alla firma del Trattato di pace.

Un percorso travagliato, come De Gasperi aveva capito sin dal primo momento, che non poteva chiudersi in maniera indolore. Qualcuno avrebbe dovuto pagare il prezzo della sconfitta, benché in parte mitigata dal cambio di alleanze al fianco degli anglo-americani e dalla Resistenza antifascista e antinazista. E quel qualcuno finì per indossare le vesti stracciate degli italiani d’Oriente.  Sulle loro spalle venne addossato buona parte del peso dei danni di guerra, con la cessione alla Jugoslavia comunista di Tito delle terre che abitavano da secoli e dei beni ivi posseduti. La dura sanzione venne sancita in un 10 febbraio freddo e amaro per gli istriani, fiumani e dalmati di lingua e sentimenti italiani, che la vissero come una “punizione” da scontare ingiustamente a nome dell’intero Paese. Per la quasi totalità di loro, quello fu il segnale atteso per una scelta radicale che avrebbe stravolto per sempre le loro esistenze: andarsene come profughi nella vicina Italia repubblicana, o in qualche lontano altrove disposto ad accoglierli e dove ricominciare tutto da zero. Prima di questo esito doloroso – una gigantesca tragedia collettiva -, c’erano stati, soprattutto nel settembre-ottobre 1943 e fra la primavera e l’estate del 1945, il terrore, le persecuzioni, la morte. Nelle foibe carsiche, nei campi di internamento, o in fondo al mare, ci finirono non solo fascisti veri o presunti, ma anche antifascisti non comunisti. Era sufficiente essere dichiarato “nemico del popolo”. Una definizione suscettibile di ogni possibile abuso.

Ma, prima ancora, nel 1941-1943, c’era stata una spietata guerra di occupazione della Jugoslavia (all’epoca una monarchia plurinazionale a trazione serba), alla quale il Regio Esercito partecipò al fianco della Germania nazista e dell’Ungheria collaborazionista. La catena a ritroso della storia si srotola, quindi, lungo tutto il ventennio fascista, che sul confine orientale mostrò la sua faccia peggiore, quello di uno Stato di polizia che considerava sloveni e croati razze “inferiori” da assimilare con la forza, negando loro ogni dignità nazionale. L’ultimo anello arriva alla Grande Guerra, la madre inconsapevole dei totalitarismi novecenteschi.

È almeno da qui che si dovrebbe partire, come suggerisce la storiografia più seria, per provare a capirci qualcosa dei traumatici eventi del 1943-45 in Venezia Giulia. Proprio quello che, salvo lodevoli eccezioni, non si fa comunemente nelle celebrazioni del “Giorno del ricordo delle foibe, dell’esodo giuliano dalmata e della più complessa questione del confine orientale”, che la legge 92 del 2004 – votata in pieno spirito bipartisan ma non all’unanimità dal Parlamento italiano – fissa nel 10 febbraio. La data simbolo di una pace punitiva, ritradotta dalla pubblicistica di destra e dalle associazioni degli esuli come odioso “diktat” dei vincitori.

Da diversi anni si ripropone, puntualmente, la polemica fra “revisionisti” e “negazionisti” o “riduzionisti”, reali o immaginari. Una frattura, insieme politica e ideologica, che non sono riusciti a ricomporre nemmeno gesti di alto valore simbolico, come l’omaggio congiunto reso, mano nella mano, dal presidente italiano Sergio Mattarella e dall’omologo sloveno Borut Pahor il 13 luglio del 2020, prima alla foiba di Basovizza e poi davanti al cippo che nella stessa Basovizza ricorda i quattro antifascisti sloveni fucilati il 6 settembre 1930, sopra Trieste. Prevale, purtroppo, a livello divulgativo, su entrambe le sponde dell’Adriatico, una narrazione ambigua e incompleta, che non riconosce – o almeno non come dovrebbe – le diverse memorie in gioco. Quella degli esuli, innanzitutto. Vasta comunità, sulla cui quantificazione non c’è ancora consenso unanime: le cifre più attendibili si attestano attorno a 300.000 persone. Ad essi crediamo che vada quantomeno un risarcimento morale – sfumato quello economico per i beni ceduti a titolo di danni di guerra alla Jugoslavia titina – dopo lunghi decenni di imbarazzante silenzio sulla loro triste epopea. Quella che rimanda agli infoibati – comprendendo nella categoria gli italiani trucidati nelle cavità carsiche, o eliminati con altre efferate modalità, come annegamenti in mare e fucilazioni nei campi di internamento -, quantificabili, in assenza di cifre certe, in diverse migliaia. Ma anche la memoria relativa ai civili slavi uccisi nei rastrellamenti e nelle esecuzioni sommarie imputabili al Regio esercito durante la sciagurata campagna di Jugoslavia, o periti di fame e di stenti nei lager fascisti, fra i quali spicca per alta mortalità quello dell’isola di Arbe (oggi Rab, in croato). Una pagina nera che contrasta vistosamente con il mito del “bravo soldato italiano” creato nel dopoguerra, in nome della riconciliazione (e dell’autoassoluzione) nazionale. Non si tratta di giustificare o, peggio, negare il dramma italiano delle foibe – meglio ripeterlo – ma di inserirlo correttamente nella grande e poco conosciuta tragedia europea che si abbatté su tutti i popoli sconfitti. Primi fra tutti, i 10 milioni di profughi tedeschi, espulsi da Cecoslovacchia, Polonia e Jugoslavia, e fra loro quasi un milione di morti.

Ha ragione lo storico Raoul Pupo, professore di storia contemporanea all’università di Trieste e considerato uno dei più autorevoli esperti della materia, quando dice che, dopo il 2004, quella degli infoibati e degli esuli è diventata “una tragedia di tutta la nazione italiana” e non più solo della destra. E noi concordiamo con lui nel ritenere l’istituzione del Giorno del ricordo “opportuna” per diverse ragioni. Ha “salvato la memoria degli italiani d’Istria, Fiume e Zara” dal rischio di scomparire, e favorito “una più ampia attenzione alla storia generale della frontiera adriatica sul piano degli studi”. Il punto debole, al di là degli sforzi compiuti – come s’è visto – dai vertici istituzionali dei Paesi dell’area altoadriatica, è rappresentato dal tema della incompiuta legittimazione reciproca delle differenti memorie nazionali. Pupo la definisce “tensione con le altre memorie, quelle non italiane”. In altri Paesi, come Germania, Polonia e ex Cecoslovacchia, le iniziative di riconciliazione hanno avuto, infatti, un successo ben maggiore che da noi. In Italia, con una destra al potere così fortemente ideologizzata, si rischia adesso una “ricolonizzazione” del 10 febbraio. La creazione di un nuovo confine mentale, dove memoria e analisi storica, invece di integrarsi fra loro, sono destinate a seguire traiettorie differenti.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

2 COMMENTS

  1. Ottimo articolo. Su questo argomento è stata per me illuminante la presentazione a cura di Omega aps, nel marzo 2022, del libro dello storico Eric Gobetti “E allora le foibe?” che, senza negare la tragica portata dei fatti, ne denuncia la strumentalizzazione politica, a partire dall’assurdo paragone con la Shoah, quasi a negare le responsabilità del fascismo italiano sulle atrocità della seconda guerra mondiale.

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