“La campagna razziale – ha scritto Marta Minerbi nel suo romanzo autobiografico La colpa di essere nati – ci aveva divelto dalla nostra casa di Treviso”. Usa proprio questo termine: “divelto”. Il senso di questa parola sta nella percezione di essere di fronte a un mondo capovolto, con il marito Alessandro Ottolenghi allontanato improvvisamente dall’insegnamento di matematica e chimica all’Istituto “Riccati” e lei costretta a lasciare il posto di direttrice didattica a Mogliano. Alessandro e Marta sono arrivati a Treviso nel 1929 per motivi di lavoro. Lui originario di Livorno (1886) e lei nata a Quarto dei Mille (Genova) nel 1895. Trovano casa in strada Terraglio, nella frazione di S. Lazzaro. Due esistenze semplici, ma che nel settembre del 1938 vengono sconvolte dai provvedimenti antiebraici.

Il colloquio di Marta con il Provveditore agli studi è drammatico: “Sono andata: come una sonnambula: ma sono andata. Aveva gli occhi umidi: Vi ho voluto qui, signora, per dirvi il mio dolore di perdervi. Ho tentato tutto. Avrei voluto che voi rimaneste almeno al mio fianco, come collaboratrice, essendo voi discriminata. Ho scritto a Bottai, il Ministro, mio amico, sperando poteste entrare nella carriera amministrativa, come segretaria. Per vostro marito, di cui conosco il valore, d’accordo col Prefetto, avevo trovato un posto al Consiglio Provinciale dell’Economia, come chimico, per la parte autarchica. Niente! Non è stato possibile”.

Nei giorni successivi il preside del “Riccati” chiede ai suoi docenti come intendono trattare il problema razziale nelle rispettive classi e gli ex colleghi di Alessandro rispondono in maniera molto solerte e zelante. Così un professore di materie letterarie: “Durante tutto l’anno scolastico coglierò ogni occasione per parlare ai miei allievi sulla difesa della razza e in che cosa consista questa lotta voluta e portata così a fondo dal Governo Fascista. In ispecial modo lo svolgimento del programma di Storia del corrente anno scolastico mi offre opportunità di mettere in chiara evidenza la diversità tra la razza Semitica ed Ariana, nei loro caratteri spirituali e somatici”.

Dall’autobiografia di Marta emergono elementi importanti sui mesi drammatici della “persecuzione delle vite”. Nell’autunno del 1943 i coniugi Ottolenghi si trovano a Venezia, dove dal 1939 Marta insegna presso la scuola elementare del Ghetto ebraico. Ma dopo l’armistizio sono costretti a procurarsi dei documenti falsi e a cercare persone amiche che possano ospitarli. In ottobre la sorella di Marta invita la coppia a partire per Milano e quindi a raggiungere la Svizzera, ma Alessandro indugia pensando alle spese eccessive per il viaggio. Per sopperire alle difficoltà economiche, è costretto a vendere i suoi libri, a sacrificare oggetti molto preziosi, quasi intimi. In questa fase, probabilmente per rassicurare la moglie, lui è ancora ottimista, ma sottovaluta i pericoli che stanno correndo.

All’inizio di dicembre, alla vigilia della deportazione di 246 ebrei veneziani residenti nel Ghetto e in altre zone, Marta trova rifugio in un convento con il nome di suor Andreina De Paoli. Una vita da reclusa assieme alle suore sordomute, ma da quel momento separata da quella di Alessandro, che invece si trova sfollato a Roncade. Ogni volta che parte dal Trevigiano per raggiungere Marta a Venezia, lui corre dei rischi enormi. Nell’ultimo incontro, avvenuto il 5 gennaio 1944, Alessandro confida alla moglie di aver ricevuto rassicurazioni dal questore di Treviso che nessuno si darà la briga di cercarlo. Ma non ha fatto i conti con un perfido delatore: viene arrestato il 27 gennaio. Incarcerato a Treviso, il 15 febbraio viene trasferito a Fossoli da dove, una settimana dopo, partirà per Auschwitz nello stesso convoglio di Primo Levi e di una decina di altri ebrei catturati nei pressi di Treviso. Giunge a destinazione il 26 febbraio e subito avviato alle camere a gas.

Non ci sono più né visite né lettere. Così Marta viene a conoscenza dell’arresto. Un amico avvocato le racconta i dettagli della cattura del marito. Le parla degli interrogatori che ha subito in carcere: ai suoi inquisitori aveva rivelato che la moglie era già al sicuro in Svizzera. E qualche giorno dopo le arriva l’ultimo scritto di Alessandro, una cartolina illustrata indirizzata ovviamente alla madre superiora: “Le raccomando la sordomuta a Lei affidata e che tanto mi sta a cuore”.

Da quel momento Marta trarrà la forza per sopravvivere grazie alla rete delle poche persone che non l’hanno tradita. Lascerà Venezia intorno alla metà di aprile per raggiungere i suoi parenti sul Lago Maggiore, dove rimarrà fino al termine della guerra. A Milano, all’indomani della Liberazione, scoprirà la destinazione finale del marito: “Andavo all’arrivo degli ex deportati. Venivano da Brema, da Amburgo, da Linz, da tutte le parti: ma non dall’Alta Slesia. Un giorno, finalmente, per combinazione, udii un nome: «Auschwitz», ed è stato allora che ho visto per la prima volta il marchio a fuoco, sul braccio, e un numero, il triste marchio di Auschwitz”.

(articolo di Daniele Ceschin sulla Tribuna del 2020)

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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