Mussolini, Almirante e “La difesa della razza”

Per il giorno della memoria "ildiarioonline" propone una serie di articoli per non dimenticare quella che è stata la vergogna dell'umanità e perché non si ripeta MAI più

Alle leggi razziali del 1938 il fascismo non arrivò per caso o solamente per adeguare la propria politica a quella dell’alleato tedesco come emerge dall’assunto di una certa storiografia revisionista. In concomitanza con la proclamazione dell’Impero, nel 1936, il regime fascista pose mano anche alla cosiddetta «questione ebraica», individuando le tappe di un percorso nel quale la legislazione razziale emanata nel 1938, non ne rappresentava che l’esito più appariscente e gravido di conseguenze.

Nel discorso che pronunciò a Trieste il 18 settembre 1938, Mussolini lo fece intendere chiaramente, precisando anche come l’origine dei provvedimenti antiebraici fosse da ricercare proprio nella guerra d’Etiopia: «Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà.

Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli, perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni.

È in relazione con la conquista dell’Impero; poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara e severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità altissime. […] L’ebraismo mondiale è stato, durante 16 anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. […] Tuttavia, gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia; quanto agli si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore; a meno che i semiti di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati e inattesi amici che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino».

Funzionale all’avvio della campagna antiebraica fu la pubblicazione di un quindicinale a grande tiratura e diffusione (arrivò a quasi 100.000 copie), «La difesa della razza», che già nel nome evocava il suo programma. Presentando il primo numero, il 5 agosto 1938, il direttore Telesio Interlandi scriveva che l’iniziativa trovava il pieno appoggio di Mussolini e del Partito nazionale fascista: «Questa rivista nasce al momento giusto. La prima fase della polemica razzista è chiusa, la scienza si è pronunciata, il Regime ha proclamato l’urgenza del problema».

Sul periodico trovarono spazio le dissertazioni “scientifiche” più disparate sulla gerarchia razziale e sull’«urto delle razze», con la proposta di argomentazioni discutibili e l’esaltazione delle differenze biologiche. La lotta contro il meticciato venne ovviamente amplificata secondo il principio che «la salvaguardia dell’impero» risiedeva «nel prestigio della razza», e una parte del mondo scientifico italiano utilizzò la rivista di Interlandi come veicolo per la diffusione d’ipotesi aberranti su tale fenomeno. Oltre che alle popolazioni coloniali – oggetto di continui riferimenti e ricorsi agli stereotipi – numerosi articoli vennero dedicati ad altre razze o categorie giudicate inferiori come gli slavi, gli zingari, gli albanesi.

Tuttavia, gli sforzi maggiori de «La difesa della razza» furono indirizzati alla propaganda antisemita, fungendo da formidabile cassa di risonanza di tutti quegli stereotipi che fino allora erano stati utilizzati in maniera poco sistematica. Sulla rivista si susseguirono articoli di carattere storico che dipingevano gli ebrei come una razza degenerata, dedita al sacrificio umano, all’usura, al complotto contro l’Italia. Lo scopo non era solo quello di fornire agli italiani una «coscienza di razza» e di stabilire una chiara superiorità rispetto all’elemento ebraico, ma di attribuire a questo anche dei caratteri antitaliani e quindi antifascisti. Essendo data per certa l’equazione tra ebraismo e bolscevismo e tra ebraismo e antifascismo, gli ebrei vennero automaticamente dipinti come disfattisti e «antiitaliani».

E durante la guerra Giorgio Almirante, segretario di redazione della rivista dal 1938 al 1943, scrisse degli articoli orribili in cui il razzismo non solo veniva teorizzato, ma doveva diventare la chiave di volta del nuovo ordine europeo.

Così nel maggio del 1942: «Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore.Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue».

L’ebreo venne dunque definitivamente identificato, per dirla con Georg Simmel, come uno «straniero interno» alla società italiana e dunque potenzialmente pericoloso per il suo essere al tempo stesso «straniero» nel senso di corpo estraneo, ed «interno» nel senso che non condivideva pienamente l’idea di comunità e, pur facendone parte, non vi s’identificava. «Il pregiudizio – ha scritto Michel Wieviorka – dà modo ai membri del gruppo dominante di razionalizzare la loro posizione, che in esso trova fondamento e continuità ideologica; favorisce […] la comparsa di privilegi in campo economico, di prestigio o in materia di sessualità. Rende sopportabili, psicologicamente, agli occhi di coloro che ne beneficiano, forme estreme di sfruttamento o di violenza». Rimane da stabilire se il pregiudizio sia una causa o un effetto del razzismo. Nel nostro caso, l’estrema facilità con cui le leggi del ’38 vennero assorbite e metabolizzate dalla società italiana, c’induce a pensare che vi fosse effettivamente una certa predisposizione culturale al razzismo, non necessariamente a quello antiebraico, ma comunque al rifiuto e all’emarginazione del diverso.

È naturale che poi quando questo razzismo fu codificato ed istituzionalizzato, il pregiudizio diventò non solo un atteggiamento spontaneo o indotto, ma un comportamento che poteva trovare una sua legittimazione.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

1 COMMENT

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here