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Uscire da una routine tutto sommato ritenuta funzionale, vagare per strade indecifrabili senza timore di smarrirsi e cogliere che, fortunatamente, il mondo non si regge sui luoghi comuni propinati a piene mani, confermare a se stessi che ovunque si percepisce bellezza. Anche pulizia interiore…

Vorrei allontanarmi dal rischio di una retorica di maniera, anche se mi rendo conto che soltanto le parole soccorrono, quando difetta un’esperienza condivisa e si vuole far partecipi gli amici, assenti, della propria meraviglia: ho trascorso il fine d’anno nei dintorni di Napoli. Questo suggerisce automaticamente verità solo parziali e vengono in mente scene di un popolo che sfoga a san Silvestro la propria tensione nei botti esagerati e negli spari, nelle grida, nella festa popolare sconfinata: sì, il Capodanno napoletano è anche tutto questo, ma esiste un’altra chiave d’accesso.

Con gli amici del Giavera Festival abbiamo scelto di soggiornare a Castel Volturno. Visto da quassù, il luogo si riassume in una cronaca statistica penosa: presenza di circa quindicimila immigrati su una popolazione di venticinquemila abitanti, edilizia d’arrembaggio sulla costa devastata; si stima che il quaranta per cento delle automobili in circolazione non siano assicurate, 500 sono persone agli arresti domiciliari. Eppure: eppure esistono canzoni visionarie e dal letame di De André nascono davvero fiori splendidi. Splendidi quanto i ragazzi che hanno trovato la propria sede nella casa di Alice, una villetta confiscata alla nefasta e celebre Pupetta Maresca. Con spirito imprenditoriale e misurata serenità hanno aperto un’alta sartoria a tema etnico, coltivano grani antichi e altre prelibatezze nei poderi sequestrati e affidati loro. Offrono lavoro serio, pagato regolarmente. Sono trascorsi molti anni, ma preservano ogni anno la memoria degli 8 ragazzi, di cui sette immigrati (uno solo sopravvissuto), massacrati a colpi di kalašnikov da elementi della camorra casalese travestiti da carabinieri. Era proprio la notte di San Gennaro del 2008. Ogni anno pochi attivisti si ritrovano davanti al bar della strage e alla stele che la ricorda. Sul muro si notano ancora le impronte delle pallottole, anche se c’è chi vuol coprirle per sempre e con esse l’infamia, ma qui è importante sollecitare la gente a non rimuovere il ricordo della prima protesta popolare contro i soprusi che si innescò, spontaneamente, il giorno dopo gli omicidi. Sono scaglie di civiltà preziose.

Così com’è preziosa l’attività degli ambientalisti dell’associazione Domizia: percorrono a piedi i quasi 45 chilometri di costa per scovare i nidi della testuggine Caretta caretta e proteggerne le uova. C’è spazio per un futuro rasserenante, fino a quando ci sarà in giro gente così: battono le spiagge anche per raccogliere i rifiuti, sembrano personaggi usciti da un racconto distopico, come condannati metaforicamente a raccogliere con un cucchiaio tutta l’acqua del mare, paragonando gli sforzi che compiono nel degrado immane. Ma l’ironia partenopea ha sempre il sopravvento e hanno creato persino il “Museo del danno” con la testimonianza dei rifiuti raccolti: sono soprattutto oggetti di plastica e tanti giocattoli innocenti, come le bambole scarmigliate, specie contemporanea di bimbe in plastica abbandonate, anche se è intuibile che un’anima ce l’hanno e ci fanno sentire tutti più colpevoli.

Scampia, altra tappa: qui avviene la resurrezione di un popolo orgoglioso che detesta il cosiddetto turismo dell’orrore, quello che viene nel quartiere solo per fotografare “Le vele”, l’edilizia impossibile, come davanti a un ridicolo monumento al degrado: dentro ci vive della gente, carne e sangue, caricata di problemi irrisolti, non animali da zoo. Ma gli abitanti di Scampia sono orgogliosi: hanno persino bonificato a proprie spese uno spazio tra le case, una discarica abusiva, ne hanno ricavato un giardino perfetto, senza il sostegno dello stato, intorno ci sono giochi e campi sportivi: nel giardino è stato piantato un albero di kaki, dal seme di una di quelle piante che sono rimaste vive dopo l’immane tragedia giapponese di Nagasaki. Bomba atomica su bomba sociale, storie assimilabili. A Scampia, tra il fiorire di innumerevoli iniziative di riscatto c’è anche il Centro sociale GRIDAS (Gruppo Risveglio dal Sonno, con riferimento alla frase di una delle incisioni della “Quinta del sordo”, la dimora di Francisco Goya: “el sueño de la razon produce monstros”). Sotto la guida di Mirella, una signora oggi ottantenne e verace maître à penser, si insegna a mettere in comune le proprie capacità artistiche, culturali e a offrirle per servizio alla gente comune, stimolare anche con l’arte la partecipazione attiva alla crescita della società: una scuola di vita pratica, per nulla barbosa, piuttosto un poco hippy e resiliente. Saggia come il capo indiano Nuvola Rossa, il cui ritratto domina la stanza dell’incontro. A Scampia è stupefacente la stazione della metropolitana, abbellita con le opere di Felice Pignataro, altamente simboliche: colpisce il murales dell’umanità che sotto il calore buono del sole agisce all’unisono per costruire il proprio futuro di pace. Tutto il quartiere è disseminato di giganteschi murales artistici. Anche il cantautore Daniele Sanzone fa capo al centro Gridas: tra l’altro, ha appena vinto il prestigioso premio Tenco 2022. Con la modestia dei grandi siede in mezzo a noi, cita il filosofo Karl Popper di Cattiva maestra televisione: film e serie tv sul genere di Gomorra, guardate senza filtri dai ragazzi problematici che non trovano in casa propria altri modelli, rischiano di avere un effetto divulgativo e di identificazione con i boss devastante, persino opposto alle intenzioni educative di chi li trasmette. Scampia è un laboratorio umano delicato, c’è molto da imparare: proprio lì abbiamo anche pranzato in un ristorante raffinato, lindo e propositivo; solo a saperlo si scopre che parte del personale è costituito da signore rom.

Ed eccoci nel cuore più antico di Napoli della chiassosa, turistica, pedonalizzata via dei Tribunali. Improvvisamente lo scenario viene stravolto, così com’è caleidoscopica la natura della città. A nostra insaputa entriamo da un portone in una grande chiesa sconsacrata. All’istante galleggiamo nell’atmosfera silente della cinquecentesca S. Maria del Rifugio, dove un tempo trovavano accoglienza le fanciulle delle povere famiglie napoletane del tempo, al fine di sottrarle dai pericoli della strada e dei male intenzionati. Oggi è un laboratorio culturale. L’atmosfera che incute, di timore quasi sacrale, si infrange in pochi minuti: tra i putti e le statue, i crocifissi e i dipinti antichi, noi stessi cómpiti ospiti nordestini veniamo coinvolti, proprio come improvvisati musici, in un travolgente concerto di strumenti a percussione. Tutti insieme a provocare battiti indiavolati sulle tammorre e i tamburelli napoletani, a mescolarli nei suoni dei campanelli, alle note metalliche dell’hand pan drum, ai ritmi dei djembe e dei bonghi. Un bel modo per accoglierci. Nella chiesa si fanno incontri, mille cose, si insegna l’italiano, primo accesso alla comunicazione, ma dentro si cela anche un cuore artigiano: un gruppo di giovani insegnanti addestra all’arte sopraffina della lavorazione artistica dei metalli e dell’oreficeria altri ragazzi, soprattutto immigrati: impareranno una professione, saranno utili a se stessi e alla società. Tra mozzarelle squisite e pizze fritte, nel calore affettuoso, ci hanno donato i propri racconti di riuscita, le sormontanti difficoltà. Con occhi dignitosamente umidi qualcuno confessa il pericolo incombente di uno sfratto. Consumano tante energie in quella chiesa, l’hanno preservata dall’incuria, ora c’è dentro anche un pezzo di loro.

Potrei dilungarmi in tanti altri racconti, altre sorprese, altri luoghi, altre storie di chi ce l’ha fatta stringendo i denti, ma non basterebbero le ore. Dunque il sud non è soltanto quello delle sceneggiate, della mozzarella e della spazzatura per strada, delle canzoni Anema e Core e della sregolatezza. Ai piedi del vulcano la fantasia è spesso al servizio di un’umanità meno fortunata che ci appartiene, e padroneggia una parola quasi strana: solidarietà. La fantasia e l’intelligenza di chi vive una realtà complessa riesce a indicarci dove sta l’uscita di sicurezza, prima che veniamo espropriati, nel becero individualismo, della nostra capacità di provare sentimenti caparbiamente umani. Anche per questo, grazie sud.

Roberto Masiero
Roberto Masiero è nato da genitori veneti e cresciuto a Bolzano, in anni in cui era forte la tensione tra popolazioni di diversa estrazione linguistica. Risiede nel trevigiano e nel corso della sua vita ha coltivato una vera avversione per ogni forma di pregiudizio. Tra le sue principali pubblicazioni: la raccolta di racconti Una notte di niente, i romanzi Mistero animato, La strana distanza dei nostri abbracci, L’illusione che non basta e Dragan l’imperdonabile.

1 COMMENT

  1. Treviso 10 01 2023 – Grazie di questo contributo che ho letto con grande coinvolgimento. Il Dualismo tra nord e sud ha radici lontane ed è radicato anche in altri paesi come la Francia. Durante la mia carriera militare ho vissuto a lungo in Campania in tempi in cui certo la vita era meno “problematica” e mi sono integrato bene.

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