Uno scrittore catapultato, quasi per sbaglio, nel cratere ancora fumante di una guerra dichiarata da poco conclusa ma che, come un incendio difficile da domare completamente, in realtà si trascina per autocombustione in tanti focolai sparsi lungo le aree di confine, dove più radicate restano le tensioni. Una guerra naturalmente orrenda, naturalmente drammatica, naturalmente insensata, come lo è ogni conflitto che vede nelle popolazioni civili le sue principali vittime. Ma quella che, nei primi mesi del 1996, incrocia la vita di Bruno Lednaz, ha la particolarità di bruciare scorie e – insieme – di preparare nuove miscele esplosive, appena al di là della porta di casa. Appena oltre Trieste. Fra la Croazia nazionalista di Tudjman e la Bosnia-Erzegovina pacificata a forza dagli accordi di Dayton. Ci troviamo nella piccola galassia jugoslava, unico angolo dell’Est ex comunista incapace di una transizione concorde e concordata verso la democrazia.

Il viaggio che Diego Zandel propone, trent’anni dopo, con la ripubblicazione del romanzo “I confini dell’odio” (Gammarò edizioni 2022, pp. 168, euro 18,00), non è però un semplice invito a non dimenticare un passato che si ostina a non finire mai (come dimostrano gli allarmi secessionisti giunti un anno fa dalla Bosnia e nelle scorse settimane dal Kosovo), e neppure un cedimento al pessimismo dei cicli storici che si ripetono implacabilmente. E’, piuttosto, un monito ad andare oltre le apparenze dei patriottismi contrapposti. E’, anche, un inno al senso di umanità e all’amore che riescono a fiorire anche nei peggiori scenari di terrore e distruzione. Le guerre balcaniche degli anni Novanta, cellule impazzite nel corpo del comunismo morto dopo il 1989, hanno ancora molto da insegnare oggi, a conflitto russo-ucraino in corso.

E Zandel, figlio di una terra di confine storicamente importante e contrastata come Fiume, crocevia fra mondo tedesco-ungherese, italiano e slavo, lo sa bene.La biografia di Bruno Lednaz, arrivato nel capoluogo del Quarnaro dall’Italia con la salma del padre esule fiumano che aveva espresso il desiderio di essere sepolto là dove era nato, ricalca in parte la storia famigliare di Diego Zandel, nato in un campo profughi delle Marche dopo la fuga dei genitori da Fiume, diventata una città jugoslava. Ed è proprio la profonda conoscenza di una realtà tanto complessa, unita alle periodiche frequentazioni dei parenti rimasti a vivere nella zona, che consente allo scrittore vero Diego di trasferirsi, con un naturale transfer psicologico, nello scrittore immaginario Bruno. I due scrittori – o lo scrittore sdoppiato in due – scoprono, così, insieme, tutte le contraddizioni della pace apparenteimposta dagli americani a croati, serbi e bosgnacchi (i bosniaci musulmani).

La trama incalzante in cui Bruno si trova trascinato, di punto in bianco, accompagnando il marito di una cugina fiumana in una sperduta località al confine fra Croazia e Bosnia per sistemare una normale faccenda di famiglia, consente all’autore di illuminare gli aspetti più sconcertanti e le pratiche più torbide e vili messe in atto nelle guerre balcaniche. Come le spedizioni punitive in questo o quel villaggio per “fargliela pagare” alla vittima di turno – solitamente donne o vecchi isolati e indifesi – croata, serba o musulmana che sia. Come il ricorso sistematico – e devastante – allo stupro etnico delle donne dell’etnia avversa, in cui si sono particolarmente distinti i serbi ai danni delle donne musulmane. O come l’inconfessabile business del traffico di armi, l’unica attività in cui neppure l’odio e il disprezzo reciproco ha mai impedito il saldarsi di feconde “fratellanze criminali” fra nemici.

In questo coacervo di regolamenti di conti rimasti in sospeso e affari sporchi in vista di nuovi conflitti nell’area jugoslava, Diego Zandel riesce a tratteggiare con efficace nettezza i diversi ruoli e profili dei personaggi, come pure a inchiodare alla loro responsabilità politici e istituzioni. Ci sono i paramilitari, feroci manovali al servizio dei signori della guerra per sbrigare il lavoro sporco (razzie, massacri, pulizie etniche), ma anche i combattenti idealisti nel nome della patria. O semplicemente i difensori dell’umanità più debole. Bruno è fra questi. Inorridisce davanti alle violenze e agli abusi ai quali assiste e che cerca, quando e come può, di impedire. C’è, nella sua ambigua posizione, anche la Sfor, la Forza multinazionale della Nato incaricata di sorvegliare sull’applicazione degli Accordi di Dayton, che rigide regole di ingaggio rendono di frequente un’arma spuntata.

“I confini dell’odio” è un libro d’azione, dalla prima all’ultima pagina. Sa prendere il lettore con un ritmo incalzante e asciutto. Ma è anche un libro di riflessione. Di partecipazione emotiva ai drammi individuali che si consumano nella grande tragedia collettiva della guerra. Bruno (alias Diego) soffre davanti al profondo trauma psicologico e affettivo che colpisce il suo compagno d’avventura Boris, pilota delle forze speciali croate, quando viene a scoprire chi è veramente e come agisce il padre, alto papavero del governo di Zagabria. “Mio padre. Porto tutte le sue colpe. Altro che guerra patriottica!”, urla a un certo punto, disperandosi, il giovane pilota.

Bruno si immedesima nell’angoscia e nell’orgoglio ferito di Zlata, una bella ragazza bosniaca musulmana, che si rifiuta di prostituirsi ai mercanti d’armi riunitisi in una base segreta in Croazia. Bruno si indigna per la vacua prosopopea e l’umiliante inettitudine dei soldati della Sfor, di presidio a Mostar – divisa fra parte Ovest croata ed Est musulmana – ai quali Bruno, Boris e Zlata chiedono protezione dopo una rocambolesca fuga fra le montagne. Bruno si commuove per la generosità della gente più umile, che ti allunga la mano per salvarti nei momenti di massimo pericolo, senza nulla chiedere in cambio. “Zbogom, addio”, saluta con gli occhi umidi il pescatore dalmata Grga, abbracciandolo come un padre, prima di confondersi nella marea di profughi che attendono l’imbarco per Fiume.

I confini alimentano l’odio, certo. Ma anche l’odio rafforza i confini trasformandoli in barriere ostili. Il passato che rimanda ai Balcani ce lo ricorda. Il presente che ci sbatte in faccia giorno dopo giorno, dal 24 febbraio scorso, il dramma dell’Ucraina, ne è la conferma. Ieri come oggi, sono i confini, fisici e mentali, i peggiori nemici della pace.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

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