Domenica 4 dicembre, nella trasmissione “Che tempo che fa”, Michele Serra ha dedicato uno dei suoi monologhi ai capannoni, con evidente riferimento al Veneto.

Con ironia e arte ha ricordato ai telespettatori che il Veneto ha oltre 90.000 capannoni, di cui circa 11.000 abbandonati. Ha sottolineato che nel Veneto ogni 50 abitanti c’è un capannone.

Più capannoni che medici di base.

Non che la Lombardia e l’Emilia-Romagna, per ricordare altre due regioni ad alta industrializzazione, abbiano situazioni radicalmente diverse. Strutture espressioni di un modello produttivo diffuso, divoratore di spazio, nel solo Veneto pari a 60.000 campi da calcio, esteticamente orrendi e poi, via via, abbandonati.  Secondo la convinzione morale, che ben si vede anche nel corso dei disastri ambientali, che il profitto e l’interesse sono sempre privati e i danni, d’ogni sorta, pubblici.

Gli abbandonati, a parte qualche tentativo istituzionale di cercarne un riutilizzo, sono destinati a rimanere grigie vestigia di un ciclo economico in cui la frenesia produttiva sommata all’accondiscendenza della politica, centrale e locale, ha lasciato che si tarmassero interi territori. 

Benché il fenomeno non sia ascrivibile a un solo governo o a un solo ministro, come non ricordare la legge 383 del 2001 del ministro Tremonti che ha ulteriormente espanso la prateria dei capannonari? Detassazioni se si riempivano i vuoti con le meraviglie costruttive che, molti, poi hanno abbandonato come un rifiuto.

Naturalmente poiché la natura, e soprattutto l’economia, abborrisce il vuoto, diversi capannoni abbandonati sono diventati ricettacolo di quello smaltimento illegale di rifiuti di cui siamo campioni.  Riempiti e poi, dolosamente, accesi, come è successo decine di volte nel Veneto e Lombardia. Certo, non che i cicli dell’industria del dopoguerra abbiano lasciato campi di margherite, basterebbe andare a Marghera o nei dintorni di Milano.

Tutti questi produttori esprimevano la sensibilità dell’industria di quei tempi: profitto a scapito di salute e ambiente. Punto. E hanno fatto bene, nel senso che hanno difeso i loro contingenti interessi. Senza alcuna visione del bene comune, al di là della concessione di uno stipendio e di una tredicesima.

Quello che è mancato, espresso in una risibile minoranza, è stata la coscienza dei cittadini sulle tematiche ambientali e della salute. Capannonilandia è sorta avendo contro solo piccole critiche di una sparuta minoranza. E anche oggi, che se ne scorge l’arrugginita problematicità, quello che ci si può aspettare dal senso civico è uno sbadiglio, un’alzata di spalla, un annoiato “e allora?”

Perché abbiamo mangiato tutti alla mensa di Capannonilandia: moltissimi cittadini si sono nutriti solo di quei pasti preconfezionati, convincendosi che fosse l’unico modo di produrre e lavorare.

Convinti che la deturpazione ambientale fosse una fisima di pochi poeti e letterati, di emarginati economici, di infelici per il panettone a Natale e la colomba a Pasqua.

Ed eccoci qui, a sentire i rimbrotti di Michele Serra ed a temere, con ansia, che le grandi piogge rivelino i nostri errori e l’abuso di condizionatori ci ricordi che scaldare il pianeta (obiettivo per i quali i capannoni hanno dato il loro contributo) non è una brillante idea.

Fortunatamente, perché la vita ci sorprende sempre, generazioni insensibili alla qualità del luogo dove passano la loro vita hanno generato figli che sui temi ambientali si stanno costruendo delle forti convinzioni ambientaliste. Anche i capannoni, alla fine, possono insegnare qualcosa.

Fulvio Ervas
Fulvio è nato nell’entroterra veneziano qualche decina di anni fa. Ha gli occhi molto azzurri e li usa davvero per guardare: ama le particelle elementari, i frutti selvatici e tutti gli animali. Si laurea in Scienze Agrarie con un’inquietante tesi sulla “Salvaguardia della mucca Burlina”. Insegna scienze naturali e nelle ore libere tre campi magnetici lo contendono: i funghi da cercare, l’orto da coltivare, le storie da raccontare. Nel 1999 ha vinto il premio Calvino ex aequo con Paola Mastrocoda. Da allora ha pubblicato moltissimi libri tra i quali “Tu non tacere”, “Follia docente”, “Nonnitudine”, gli otto che hanno per protagonista l’ispettore Stucky da cui è stato tratto il film “Finché c’è prosecco c’è speranza” interpretato da Giuseppe Battiston e “Se ti abbraccio non aver paura” che ha vinto numerosi premi ed ha ispirato, nel 2019, il film di Gabriele Salvatores “Tutto il mio folle amore”.

1 COMMENT

  1. Treviso 11 12 2022 – Sono rimasto molto colpito anch’io dall’intervento di Michele Serra su capannoni abbandonati che qui nel Veneto hanno un impatto ambientale assai pesante. Grazie per questo contributo…

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