Nella campagna elettorale più anomala della storia repubblicana, fra alleanze forzose e insincere indotte dal maggioritario e carrellate di slogan retorici in funzione di pressing emotivo su un elettorato più sensibile ai pacchetti vacanza tutto compreso che a formule acchiappa-voti onnicomprensive, qualcuno vede forse circolare idee nuove? Vere idee? Per poterci orientare con una bussola etica in questa tempesta del nulla (Samuel Beckett sosteneva che “nulla è più reale del nulla”), non resta che affidarsi alle riflessioni e ammonimenti espressi, nel tempo, da alcuni grandi vecchi. Uomini e donne di cultura, sovente sul crinale anagrafico del secolo, che sovrastano, per profondità spirituale e spessore speculativo, il chiacchiericcio inascoltabile che si leva dall’arena politica contemporanea.

Penso all’ex partigiano francese, ma tedesco di nascita, Stéphane Hessel, che a 93 anni nel 2011, due anni prima di lasciarci, scrisse il pamphlet “Indignatevi!”, nel quale, davanti all’evidente declino dell’Europa occidentale, rammentava i valori tramandati dalla Resistenza, e traditi dalla politica, che parlavano di voglia di giustizia e di uguaglianza, e di società del progresso per tutti. Penso al grande scrittore italo-sloveno Boris Pahor, scomparso tre mesi fa a 108 anni, del quale, oltre alla ricca produzione letteraria (cito qui solo “Necropoli”, capolavoro nato dalla sua esperienza di prigionia nei lager nazisti, e “Il rogo nel porto”, ovvero la vita nella Trieste ottenebrata dallo squadrismo fascista dopo la Grande Guerra vista con gli occhi di un bambino sloveno di 7 anni) merita di essere ricordata un’intervista all’Espresso di tre anni fa.

In essa, Pahor si chiedeva “dove ci sta portando il capitalismo?”, sottolineando che “la crisi, le crisi che stiamo vivendo non sono nate dalla gente semplice, ma dalla vittoria del denaro su tutto e tutti”. E aggiungeva: “Viviamo in una società egoista, che fa schifo: il capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule, glielo dice un anticomunista”.

Zygmunt Bauman

Viene in mente il “capitalismo parassitario” analizzato da Zygmunt Bauman in un suo celebre studio nel quale i consumatori-debitori, ancor più nella moderna “società liquida”, sono visti come le “terre vergini” che devono essere sfruttate con profitto dal sistema parassitario, interessato solo a raggiungere, con qualunque mezzo, il massimo profitto. C’è forse qualcuno, fra tweet, podcast e proclami vari, che ponga il tema di una seria e etica riforma del capitalismo liberale senza rinnegare per forza il libero mercato?

Di pochi giorni fa è, invece, l’ampia intervista rilasciata a “la Lettura” del Corriere della Sera da un altro gigante della cultura, come il filosofo francese Edgar Morin. Una luce nel tunnel che oscura “la nostra stanca civiltà” -per dirla alla Francesco Guccini -, che ci porta ancora più in là, o più in su. Il celebre studioso, definito anche “umanista planetario”, avverte che la crisi più grave che stiamo vivendo è, prima ancora che economica, geopolitica, sociale e ambientale, una “crisi del pensiero”. Questo splendido vegliardo, a 101 anni ha ancora la forza e la voglia di pubblicare un saggio dal titolo “Svegliamoci”, in libreria dal 9 settembre, e prima di cadere definitivamente nel sonnambulismo della ragione che dilaga come una impercettibile alta marea, correrò subito a leggerlo.

Edgar Morin

Intanto, nella citata intervista al “Corriere”, ci offre alcuni spunti molto interessanti, di cui dovrebbe tenere conto per prima proprio la sinistra, smarrita nel suo ruolo e incerta della propria identità, che non sia solo quella di antemurale contro il risorgente – vero o presunto – pericolo fascista. O più banalmente, di barriera alla prepotente ascesa nei sondaggi della destra in vista del voto del 25 settembre. Dice Morin: “Non si può fare politica indicando come obiettivo solo quello di respingere i partiti di destra. Bisogna proporre una concreta trasformazione progressista della società”. E fra i temi che troveremo al centro del suo nuovo libro vi sono “l’ecologia e il deterioramento del pianeta”, compare “un’autentica indipendenza dell’Europa dalle grandi potenze mondiali” (“gli americani vanno considerati come alleati, non come dominatori”), si staglia il bisogno universale della solidarietà “come pieno riconoscimento dell’umanità dell’altro”. Un altro punto che a me pare fondamentale, anche per smontare razionalmente un cavallo di battaglia delle galoppanti destre regressive, è poi l’analisi del rapporto fra patriottismo e nazionalismo.

Morin parla della Francia, della sfida vinta (a stento) da Macron su Marine Le Pen alle presidenziali, quando osserva che “il nazionalismo chiuso (ripiegato su sé stesso e dunque opposto al patriottismo), la xenofobia, i rigurgiti di antisemitismo, l’ostilità verso arabi e immigrati, sono segnali preoccupanti”, che la destra non tiene conto della storia di un Paese la cui natura è “una e molteplice. Molteplicità che i reazionari ignorano”. Ma il suo ragionamento va oltre la Francia. Riguarda l’Europa tutta. Egli ci avverte che il nazionalismo è “una forma degradata di patriottismo”. Perché il vero patriottismo, nato con la Rivoluzione francese, “non era nemico dei popoli con cui era in conflitto, ma si considerava il loro liberatore”, presuppone un “legame d’amore” fra i popoli. A differenza del nazionalismo che “si fonda sull’odio, sul rifiuto delle differenze”.

L’argomento è solo apparentemente un cavillo da salotti intellettuali. Qui passa il vero discrimine culturale fra i due campi avversi. Già Giuseppe Mazzini avvertiva, in una lettera del 1861, “chi fa la santa parola di Nazionalità sinonimo d’un gretto geloso ostile nazionalismo commette lo stesso errore di chi confonde religione e superstizione”. La sua concezione di patria superava ogni argine territoriale o etnico: “Dovunque vi troviate, in seno a qualunque popolo le circostanze vi caccino, combattete per la libertà di quel popolo, se il momento lo esige”, scriveva in “Dei doveri dell’uomo”.

Giuseppe Mazzini

Mazzini elogiava il patriottismo cosmopolita di Dante, tanto è vero che in un celebre articolo di vent’anni fa sul “Corriere della sera”, Claudio Magris accostava le due nobili figure: l’alfiere del Risorgimento e il padre spirituale della lingua italiana. Di Mazzini osservava che la sua Italia “è una Patria, l’amore per la quale è inseparabile da quello per l’Europa e per l’umanità”. Del Sommo Poeta gli piaceva sottolineare che “Dante diceva che a furia di bere acqua dell’Arno aveva appreso ad amare fortemente Firenze, ma aggiungeva che la nostra Patria è il mondo, come il mare per i pesci”.

Sembra pura astrazione, materia immateriale per spiriti contriti per “come vanno le cose” oggigiorno, ma a ben guardare è proprio nella piena consapevolezza di tale distinzione, in una società così inquinata da eccesso di consumismo e inflazione di effimeri “influencer”, che ci sembra possibile recuperare una idea dignitosa della politica, al tempo stesso patriottica e sovranazionale. Che ci indichi una Patria europea, dove far convivere e far emergere il meglio delle singolarità nazionali. Un’idea che forse la sinistra potrebbe valorizzare meglio nella sua proposta di rilancio del diritto di cittadinanza, che riguardi, nonostante l’apparente paradosso, anche chi formalmente già ne gode.

Davanti all’aggressione ai diritti fondamentali in corso non solo nelle dittature esplicite, ma anche in tante semi-democrazie della tollerante Europa (Polonia e Ungheria, ad esempio) o nella sofferente democrazia americana dopo il ciclone trumpiano, è opportuno richiamare il rischio indicato con magistrale intuito, settant’anni fa, da Hannah Arendt nel libro “Le origini del totalitarismo”.

In premessa al capitolo “Il tramonto degli Stati nazionali e la fine dei diritti umani”, come osserva lo studioso triestino Edoardo Greblo, la filosofa tedesca di origini ebraiche parlava dei milioni di esseri umani che, una volta resi “apolidi” e non più tutelati dai diritti di cittadinanza, si videro spogliati del “diritto di avere diritti”: “Privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra”. E, dunque: indignatevi, o svegliatevi, ma in ogni caso liberatevi dal cappio delle propagande, cari cittadini elettori.

Valerio Di Donato
Valerio Di Donato, giornalista e scrittore. Ha lavorato a lungo al "Giornale di Brescia", occupandosi di politica interna e estera approfondendo in particolare le vicende dell'area balcanica. Ha pubblicato due libri: "ISTRIANIeri. Storie di esilio", uscito nel 2006 con "Liberedizioni" di Gavardo, una serie di racconti di vita vissuta concernenti la storia degli esuli giuliano-dalmati e non solo. Nel 2021 ha esordito nel romanzo storico con "Le fiamme dei Balcani", per i tipi di "Oltre edizioni" di Sestri Levante.

2 COMMENTS

  1. Bello, questo articolo che ci riporta alle ragioni vere della politica. Rilascia un poco d’amarezza il pensiero che il nostro popolo non avverta per gran parte questa pulsione ideale, ma ragioni sul presente, sulle necessità immediate da soddisfare a qualunque costo, e concede credito a chicchessia, anche ai pericolosi imbonitori che propongono soluzioni miracolistiche pur di dominare: ha uno sguardo miope e disilluso, che si accontenta dell’uovo oggi; spesso la sua è una visione degna della distopica metafora per quanto accaduto, forse, nell’isola di Pasqua. La storia della miopia umana si rinnova. Ma apprezzo chi insiste a voler tentare di far alzare lo sguardo: perché il futuro è dietro l’angolo.

  2. Grazie per questo contributo. Ho apprezzato molto l’analisi ed i riferimenti storici ed in particolare l’accostamento tra Dante e Mazzini fatto da Claudio Magris: «Mazzini elogiava il patriottismo cosmopolita di Dante sostenendo che l’amore per la Patria è inseparabile da quello per l’Europa e per l’umanità». Del Sommo Poeta gli piaceva sottolineare: «Che a furia di bere acqua dell’Arno aveva appreso ad amare fortemente Firenze, ma aggiungeva che la nostra Patria è il mondo, come il mare per i pesci». [sic]

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