In una fase molto incerta come quella che stiamo attraversando, con le elezioni politiche alle porte il 25 settembre, ci sono due parole, due concetti, due valori che devono essere recuperati nel dibattito pubblico, ma che tutti i partiti tendono comunque ad ignorare: coerenza e credibilità. Due termini strettamente intrecciati e che durante questa legislatura, giunta al capolinea, sono stati calpestati. Io sono convinto che se non si pratica coerenza, non puoi pretendere di avere credibilità. Anzi, non ne hai alcuna.

Ora, è lecito cambiare idea, ma farlo un po’ troppo spesso abusando della fiducia (e del voto) degli elettori appare a dir poco disdicevole. Infatti, come può essere credibile un politico che non ha dimostrato alcuna coerenza durante il suo mandato? Non sto parlando di incoerenza rispetto a singole scelte, quelle che sei tenuto a compiere quando misuri la distanza tra il dire e il fare, tra l’essere all’opposizione o avere responsabilità di governo.

Sono passaggi che vanno spiegati e che i cittadini che ti hanno votato alla fine capiscono. Perché non esistono mai risposte semplici a problemi complessi. Aggiungo pure che il mestiere della minoranza, pur frustrante, anche a volerlo fare male è il più facile del mondo: basta dire sempre di no, non proporre mai nulla e aspettare il proprio turno. Mi riferisco invece a un’incoerenza di fondo. Quella che ti porta a cambiare più volte partito o gruppo nel giro di poco tempo per mero opportunismo, a creare micropartiti per soddisfare unicamente il proprio ego, a dire “se perdo lascio la politica” (senza mai mantenere l’impegno), oppure” mai al governo con il Movimento 5 Stelle”, oppure “no all’Euro, no alla Tav, no al Tap, no al termovalorizzatore” e poi fare esattamente il contrario, tradendo valori e principi. Si dirà: è lo stare al governo che porta a cambiare idea (o il volerci entrare a tutti i costi, sia livello nazionale che locale) è la responsabilità che induce a fare scelte anche lontane dai propri programmi. Ma se da tempo non va più di moda dire quello che si pensa, oggi non si fa nemmeno quello che si dice e si cambia idea anche a distanza di poche ore. Addirittura, con i social che sono lì e ti possono smentire in tempo reale (i giornalisti non fanno più neanche le domande, figurati se osano contraddirti). E, sia chiaro, la pandemia e la guerra, eventi certamente eccezionali, non giustificano questa condotta e non possono diventare degli alibi.

Prima domanda: cosa dovrebbe fare tra due mesi un elettore di fronte a un tale livello di incoerenza? Nella migliore delle ipotesi sta a casa, nella peggiore vota per il tuo avversario, magari per Giorgia Meloni, ora vista come il babau, una che ha mantenuto una solida coerenza ma solo grazie al suo comodissimo ruolo di opposizione, come aveva fatto il M5S fino al 2018. La disaffezione verso la politica, in un quadro dove non esistono né i partiti ideologici e nemmeno la possibilità di scegliere i propri candidati, si traduce quindi nell’astensionismo (e giù fiumi d’inchiostro sulle ragioni sociologiche etc., quando la risposta è semplice semplice) o nella fiducia in chi non è stato contagiato dal governismo. Eppure, ci dovrebbe pur essere una terza via, una scelta consapevole attraverso un fact-checking. Costa tempo, ma ne vale la pena.

Seconda domanda: che valore hanno i programmi elettorali se è chiaro fin da subito che non solo non verranno realizzati, ma addirittura traditi? Un piccolo esempio. Se un politico propone la realizzazione di un asilo nido comunale per soddisfare la domanda delle giovani coppie con figli e così ridurre le rette alle famiglie e un altro politico, invece, promette asili nido gratis per tutti, secondo voi chi vince le elezioni? Ovviamente il secondo, che però non ha detto dove avrebbe trovato le risorse rendendo difficilmente realizzabile la promessa.

È ancora la distanza tra il dire e il fare, o meglio tra la serietà e la demagogia.

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