È da circa 3 anni che a fine dicembre gira il meme del “a Capodanno se non urliamo tutti ‘Jumanji!’ ci troviamo un altro anno da dimenticare”: questo forse è indizio del fatto che un po’ tutti ci stiamo rendendo conto che le cose stanno iniziando ad andare un po’ peggio del solito (non che prima fosse il paradiso, per carità).
Del resto, se a un’Amazzonia in fiamme segue una pandemia inimmaginabile, seguita da una guerra che rischia di degenerare in una catastrofe atomica, cui poi si somma una scottante siccità che sembra stare colpendo contemporaneamente mezzo mondo… sì, anche a chi non passa neanche un minuto al giorno ad informarsi viene spontaneo chiedersi cosa diamine stia succedendo tutto ad un tratto, e per quanto durerà questo casino.
Ci sono delle risposte a queste due domande? Sì, e le possiamo ricavare non tanto da un libro di fisica o di geopolitica, ma da una citazione di un banalissimo libriccino di psicologia.
L’inventore del concetto di biofilia, Edward O. Wilson, affermava: “Il vero problema dell’umanità è che abbiamo emozioni paleolitiche, istituzioni medievali e tecnologie semi-divine”.
Tre cose dannatamente vere: i nostri governi non sono strutturati poi così diversamente da quelli che si sono fatti la guerra per secoli negli anni bui; la nostra tecnologia ci permette (volontariamente o meno) di cancellare la vita in una data zona, di alzare la temperatura del pianeta, eccetera; ma soprattutto le “emozioni paleolitiche” sono il dannato problema.
O meglio, più che le emozioni, il funzionamento automatico del nostro cervello, brevettato e perfezionato quando ancora inseguivamo i mammut ed eravamo inseguiti dalle tigri dai denti a sciabola. Il nostro encefalo da allora si è espanso, ma la parte interna non è poi così cambiata.
Il “principio del minimo sforzo” è una tendenza scontata e necessaria in ogni pianta e animale: dopo una fulminea stima a spanne di costi e benefici, l’essere vivente fa la scelta che dovrebbe portargli un risultato immediato e soddisfacente a fronte del minimo dispendio energetico possibile, anche mentale (il cervello consuma tantissime risorse, specialmente quando lavora attivamente).
Questo spiega perché, in numerosi esperimenti, si è visto che non solo l’animale, ma pure l’uomo tendenzialmente prende la strada più semplice (e non la più breve, anche se spesso coincidono).
Senza questa caratteristica, i nostri antenati difficilmente avrebbero avuto abbastanza fitness per sopravvivere abbastanza a lungo per dare inizio alla nostra civiltà; ma la complessità della civiltà stessa li ha portati anche a sviluppare un “sistema alternativo”, quello razionale, che pur essendo minoritario ci permette spesso di fare delle scelte intelligenti al posto di quelle semplici (es. studiare per l’esame del giorno dopo anziché ronfare sul divano).
Senza questo, non avremmo neppure un vago concetto di “futuro” e “complessità”.
La parte razionale del nostro cervello è in crescita perché, con la loro ovvia lentezza, i nostri cromosomi stanno capendo che non abbiamo più così tanto bisogno di risparmiare energia mentale; ma è ancora dominante quella istintiva, locata al centro dell’encefalo, che spesso e volentieri nella sua ricerca di semplicità viene hackerata e ingannata dalle mille trappole mentali che la nostra società ha partorito.
Leggere un libro porta dei benefici al cervello, ma è più dispendioso (e rilascia meno dopamina) di guardare la tv o giocare ai videogames; lo stesso discorso vale per ogni cosa che percepiamo buona o utile (mantenersi informati, fare volontariato, organizzare ritrovi) ma che, se non c’è un’imprinting sociale (che la rende più normale e quindi semplice) viene buttata alle ortiche in cambio di un’attività più semplice, meno sfidante e con un rilascio più intenso di dopamina, anche se razionalmente inutile o dannosa.
Questa tendenza a fare la scelta semplice e immediata in sé non è così grave o pericolosa; lo diventa però quando siamo miliardi di individui e abbiamo delle tecnologie semidivine in grado di risolvere o causare degli eventi massivi nello spazio e nel tempo.
Ed è così che, diversi anni fa, come popolazione e come politica abbiamo iniziato a seminare delle mine che ora stanno iniziando ad esploderci sotto i piedi.
Era già stato dimostrato che la perdita di biodiversità favorisce le epidemie, ma a breve termine era più vantaggioso trasformare tutti quei terreni in luoghi “produttivi”; si sapeva da sempre che una transizione ecologica veloce e bilanciata avrebbe indebolito i vari guerrafondai (non solo Putin) sparsi per il globo, ma vi sarebbe stato uno svantaggio nell’immediato; da decenni era stata prevista l’entità delle caldissime siccità che avrebbe portato il riscaldamento globale, ma le misure di mitigazione e adattamento erano dannatamente dispendiose, complesse e a lungo termine, eccetera.
E ora come comunità iniziamo a pagare i precedenti decenni di lusso e consumismo, saltando di emergenza in emergenza, come un capitano che per pigrizia non abbia mai fatto manutenzione alla nave e ora stia accorgendosi che il proprio veliero imbarca acqua da ogni parte.
La cosa più interessante di questa situazione orrifica è che abbiamo ancora la possibilità di scegliere se vogliamo continuare con lo stesso andamento dei decenni precedenti, affidandoci a soluzioni-pezza ridicole e a breve durata e continuando a seminare mine sempre più pericolose nel sentiero che abbiamo davanti, o se vogliamo cambiare traiettoria e riservarci un futuro forse meno comodo e ingordo, ma più sano, sereno e sicuro.
La scelta per adesso sembra cadere sulla prima opzione: per fare un esempio, le istituzioni italiane stanno affrontando la siccità giocando a razionare la poca acqua rimasta a disposizione quest’anno e sperando in un (non scontato) miglioramento successivo; dovrebbero invece intervenire in modo strutturale sulla rete idrica-colabrodo e su tutti i settori ad alto consumo di acqua che non sono necessari o che comunque dobbiamo alleggerire per altri motivi (esempi scemi: carne, fast fashion, plastica, centrali termiche).
Ma proseguendo con l’esempio, noi italiani stiamo tentando con “resilienza” (leggasi “inerzia”) di fare quello che abbiamo sempre fatto, cioè le vacanze estive, i festoni, i pomeriggi di gaming, lo shopping eccetera, scappando dal caldo per mezzo dell’aria condizionata e dalle altre preoccupazioni per mezzo di un ben navigato fatalismo; ciò che ci conviene fare è invece prendere il bue per le corna e spingere la politica di cui sopra a fare ciò che deve fare, e si può fare attraverso il movimentismo, l’associazionismo, la partecipazione politica e ovviamente (necessario ma non sufficiente da solo) il voto. Facendo così avremmo pure il beneficio di ridare sangue ad un sistema sociale debole e agonizzante, avere cura in modo serio della comunità in cui viviamo, e forse dare anche un senso più alto (e un futuro più tranquillo) alla nostra vita.
Morale della favola!
Al momento, come società e come individui, siamo immersi in una pigra (ma comoda) inerzia, che genera un conflitto a intensità crescente contro i noi stessi del futuro; ma abbiamo ancora qualche possibilità di salvare il salvabile: tirandoci su le maniche e sfidando i limiti ereditati dall’Homo Sapiens Sapiens, possiamo sperare di riuscire a sconfiggere l’animale hackerato che c’è in noi e porre fine a questa guerra eterna.
E forse così i posteri potranno dire che a inizio duemila è nata la specie Homo Sapiens Sapiens Sapiens.