Provate a immaginare il coraggio e la determinazione di Greta Thunberg, o di qualunque altra/o attivista che viva in Europa o in America. Bene, ora moltiplicatelo per dieci. Questa è la storia di una attivista africana della nostra età, questo è il racconto di Vanessa Nakate.

È troppo facile dimenticarsi dell’Africa. Del resto, capita anche agli africani stessi. Quasi tutti i giornali e i media che operano nel continente tra Libia e Sudafrica hanno sede nel “primo mondo”, ed è da lì che rilanciano le informazioni, quasi tutte riguardanti appunto le storie e le preoccupazioni del “primo mondo”. In Etiopia c’è la guerra civile, eppure lì si parla molto di più del conflitto ucraino che della mattanza a pochi chilometri dalla capitale nazionale; in Congo la foresta vergine viene incendiata da affaristi senza scrupoli, eppure l’attenzione è rivolta verso il bruciare dell’Amazzonia; l’informazione è concentrata sul punto di vista dei “bianchi”, la conseguenza è che molti africani neppure sanno che cosa stia accadendo a due passi da casa, figuriamoci agire al riguardo.

Anche perché, in paesi come l’Uganda, parole come “agire”, “manifestare”, “scioperare”, possono costarti la libertà o anche la vita, perché vi è un perenne conflitto armato tra governo e opposizione: la polizia ha sempre i nervi scoperti e il manganello facile, ogni dissidente è visto come un possibile attentatore, anche gli universitari che marciano per chiedere rette più basse devono aspettarsi la repressione.

Eppure, anche in Africa occorre agire. È vero che la popolazione del continente è responsabile di una frazione misera delle emissioni di gas serra e del consumo di combustibili fossili; ma è vero anche che sono quelli in assoluto più colpiti dalle conseguenze della crisi climatica (e non solo): l’instabilità meteo che abbiamo paura di veder iniziare nel Mediterraneo lì è già arrivata, e si fa sentire eccome!

Alcune zone africane sono più tormentate da siccità e incendi, che rovinano il raccolto e spingono la popolazione a scappare verso le città; altre soffrono una granugnola mensile di alluvioni e uragani, che causano danni incalcolabili e morti in gran numero, oltre ad aprire ogni volta le porte alla diffusione di epidemie e di specie invasive (non solo zanzare).

La Namibia sta venendo divorata dal deserto, il Togo dall’acqua; i conflitti sono causati o arroventati dalla difficoltà sempre maggiore di accedere alle risorse primarie. Eppure, ai negoziati globali per il clima come la COP26 di Glasgow, i “neri” non vengono praticamente invitati. Dovrebbero rappresentare la “parte lesa” da soccorrere, invece ne fanno venire giusto giusto qualcuno, tanto per non far sembrare il tutto un’enorme riunione carnevelata da campagna elettorale.

Di fronte a tutto questo, una neolaureata ugandese (e non solo lei) si è ribellata. E ha iniziato a darsi da fare, pur sapendo che in quel continente tutto è contro di lei: ha sfidato i tabù di una capitale, Kampala, simile a quelle europee ma in cui la partecipazione politica femminile è vista come una devianza morale; ha sfidato la paura dei suoi familiari e dei compagni di università; ha sfidato i poliziotti inquisitori e le orde di haters sui social; ha sfidato il fatto che quasi tutti nel suo paese (complici alcuni furboni) pensano che il crescente collasso del clima sia semplice punizione divina.

Dalle manifestazioni mono-persona davanti al Parlamento ugandese ai laboratori climatici al riparo delle scuole elementari, fino all’ottenimento del supporto legale delle ONG “bianche” (GreenPeace, WWF e simili sono attive e presenti nel territorio, ma i loro gruppi di ricchi volontari dai lineamenti caucasici sono visti come qualcosa di alieno e “al di sopra” rispetto ai cittadini autoctoni, per i quali l’Apartheid è stato superato solo in teoria); al venire addirittura invitata dall’Onu al summit sul clima di New York 2019 per rappresentare la giovane generazione africana nei negoziati.

Vanessa afferra l’opportunità di un volo nella città statunitense, ma lì scopre che di offerto aveva solo il viaggio e l’alloggio, deve sopravvivere nella City per giorni con soli 150 dollari (un piccolo tesoro in Uganda, spiccioli negli USA). Lì incontra la solidarietà degli altri attivisti da ogni parte del mondo, vive le manifestazioni da migliaia di persone (che almeno in Occidente non vengono represse), trova l’energia per affrontare il summit, che noi ricordiamo per il meme su Greta “How dare you” e Vanessa per le numerose discriminazioni ricevute da staff e politici; riceve dai rappresentanti governativi del suo paese un invito ad un colloquio in patria, che però sarà disertato dagli stessi.

Torna a casa più agguerrita che mai, continua con le sue attività, fonda un’associazione che pianta alberi nei terreni disboscati e difende quelli ancora integri; viene nuovamente invitata, alla COP25, al World Economic Forum di Davos 2020 (dove rischierà di gelare a morte), alla pre-COP26, alla COP26. Viene sempre accolta da forme più o meno offensive di discriminazione, tra queste c’è l’episodio di una sua foto con Greta Thunberg e altre tre attiviste “bianche”, pubblicata dai giornali tagliata in modo da eliminare solo lei, l’unica “nera”, dalla scena, e quindi eliminare anche l’idea dell’Africa come parte interessata nei negoziati.

L’accadimento non scatena solo la solidarietà delle altre attiviste della foto, ma anche l’indignazione dei suoi connazionali, che iniziano a supportarla maggiormente e a partecipare di più alle sue iniziative in Uganda; ed è proprio per i restanti suoi concittadini che Vanessa scrive un libro, “Aprite gli occhi”, per poi prepararsi ad un nuovo giro in Africa e in Europa per seminare da una parte la speranza attiva, e dall’altra la coscienza e la conoscenza di ciò che sta vivendo il suo paese natale e che in futuro, anche qui da noi, potrebbe accadere se perdessimo la guerra del clima.

In una di queste tappe Vanessa Nakate è intervenuta a metà maggio a Venezia, in una conferenza organizzata dall’associazione “Incroci” insieme a Ca’Foscari; partecipando alla quale ho sentito questa storia e sono rimasto fulminato dal fatto che, a differenza di noi europei che vediamo ancora il tutto come una blanda questione etica, lei presenta l’emergenza climatica come una cosa presente e tangibile, con cui fare i conti immediatamente e in modo radicale per salvare quantomeno il salvabile.

Non posso che consigliare la lettura del suo libro, che ho trovato decisamente scorrevole e capace di scatenare emozioni molto forti; ma ci tengo anche a lanciare un invito a tutti i lettori di questo articolo ad impegnarsi nell’attivismo per il clima, agendo individualmente oppure fondando gruppi e associazioni ecologiste, o infoltendo i ranghi di quelle già esistenti.

Perché se superiamo i 2 gradi di anomalia climatica (l’attuale traiettoria è verso i 4 gradi a fine secolo), le zone da cui proviene Vanessa diverranno seriamente inospitali; e noi ci troveremo a dover accogliere folle di poveri cristi mentre nel frattempo facciamo i conti con i disastri che in Africa stanno già vivendo in questo momento: uno scenario decisamente da evitare, se vogliamo un futuro in cui costruire una vita serena e realizzare le nostre aspirazioni.

E perché, diamine, se in un paese semidittatoriale che non può fare quasi nulla per diminuire le emissioni, comunque, ci sono ragazzi e ragazze come noi che fanno dei sacrifici per tentare di salvare il salvabile, perché non dovremmo farlo noi, figli straviziati di uno degli stati più democratici, nonché più ricchi e inquinanti del mondo? Ce l’abbiamo, una spina dorsale? E un fegato, ce l’abbiamo?

La guerra del clima è già iniziata, sta a noi decidere da che parte stare.

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