Io sono una forza del Passato. 
Solo nella tradizione è il mio amore. 
Vengo dai ruderi, dalle Chiese, 
dalle pale d'altare, dai borghi 
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, 
dove sono vissuti i fratelli. 

(P. P. Pasolini, Poesie in forma di rosa)

Bologna non è solo la città che ha dato i natali a Pier Paolo Pasolini, cento anni fa: Bologna è stata anche il luogo in cui Pasolini si è formato intellettualmente e culturalmente: innanzitutto presso il Liceo Galvani, dove stabilisce una serie di profonde amicizie, ma soprattutto all’università di Lettere, dove incontra il suo primo maestro: il critico d’arte Roberto Longhi. Le sue lezioni di storia dell’arte medievale e moderna suscitano immediatamente un’ondata di entusiasmo nel giovane, che frequenta le sue lezioni «febbrilmente» – in particolare il corso tenuto “sui fatti di Masolino e Masaccio” – e che in seguito proporrà a Longhi due diversi temi da svolgere per la tesi di laurea (poi la guerra scompaginerà i suoi propositi e si laureerà su Giovanni Pascoli).

Il magistero di Longhi schiude al giovane Pasolini gli orizzonti dell’arte figurativa europea liberati da ogni retorica. «Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo silenzio era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era una rivoluzione.»

La “folgorazione figurativa” suscitata dalle lezioni di Longhi – vero e proprio imprinting – riemergerà con forza e passione quando, all’inizio degli anni ’60, Pasolini passerà dalla letteratura al cinema. La mostra (curata dalla Cineteca di Bologna) che si è inaugurata nel Sottopasso di Re Enzo il primo  marzo del 2022 (e che chiuderà a ottobre), ricostruisce le immagini della grande tradizione pittorica confrontandole con quelle dei film di PPP, lungo un percorso cronologico che va dall’esordio di Accattone nel 1961 all’ultimo, Salò del 1975.

Roberto Longhi, oltre la pittura, amava il cinema e andava appositamente a Parigi per vedere i film di Jean Renoir (sì, il figlio del grande pittore Pierre-Auguste) e di Charlie Chaplin. A Bologna – racconta Nico Naldini in Vita di Pasolini – frequentava le proiezioni del Cinema Imperatore dove si recava anche Pasolini. Ma è in aula che mostra tutta la sua originalità, usando una tecnica critica assolutamente nuova: proietta sullo schermo dell’aula i vetrini che riproducono le immagini di alcuni dettagli delle opere d’arte analizzate. «Lì, dai particolari, – scrive Antonio Bazzocchi nel catalogo della mostra – dai frammenti di un’opera, Longhi ricostruisce lo stile dell’artista, sa distinguere le fasi del suo percorso, le sa mettere in rapporto con quello che viene prima ma anche con quello che verrà poi. Particolari e frammenti di realtà, un viso, una mano, un lembo di veste. Corpi sezionati, esaminati a pezzi, osservati come oggetti d’amore. Per Pasolini in quei vetrini si consuma una folgorazione dove prende posto tutto il suo mondo futuro: la sua idea della Realtà come oggetto unico di attenzione, il bisogno di leggere sempre nei volti l’alterità, la diversità, la spinta a uscire fuori di sé per conoscere il mondo, e infine la carica erotica. Ogni film di Pasolini è progressivamente la costruzione di una bellezza che saccheggia ampie zone dell’arte italiana o europea per ridare dignità espressiva a ciò che non la avrebbe. I suoi film, complessivamente, disegnano una storia dell’arte in forma di cinema.»

E allora, basta osservare le prime sequenza dell’esordio cinematografico di Pasolini, quell’Accattone (1961) che tanto fece gridare allo scandalo, per riconoscere una frontalità delle inquadrature che proviene dritta dritta dai quadri romanici e che contribuisce a evocare una presenza del sacro tra le pieghe della realtà apparentemente più sordida, che tanto indignò i benpensanti e gli “uomini medi” del tempo.

(“Ma lei lo sa cos’è un uomo medio? Un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista.” Così il regista interpretato da Orson Welles, alter ego di Pasolini nel film La ricotta)

È proprio quel tipo inquadratura, che rimanda a Giotto, a sottrarre Accattone all’ambito “cinema neorealista” e a trasportarlo in una dimensione nuova, originale, diciamo: sacrale (o più precisamente: ierofanica), grazie anche all’uso di una colonna sonora tutta incentrata sulle musiche di Bach.

Nel film successivo, Mamma Roma, con Anna Magnani, il tributo al magistero longhiano è ancora più evidente: la macchina da presa che inquadra il corpo di Ettore, il giovane protagonista, legato al letto di contenzione in carcere, ripercorre il punto di vista del celebre ritratto del Cristo morto di Mantegna. Per non parlare del film successivo, La ricotta, in cui Pasolini costruisce due tableaux vivant a partire dagli amatissimi pittori manieristi, le due deposizioni di Rosso Fiorentino e Pontormo (uniche sequenze a colori in un film in bianco e nero). Per essere poi accusato di blasfemia dai sepolcri imbiancati della borghesia italiana, “la più ignorante d’Europa”.

Ma non solo romanico e rinascimento italiano. Nel film Che cosa sono le nuvole?, con Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, film che a parere dello scrivente – e non solo – è il più poetico e il più straziante dell’opera filmica di PPP, appare un doppio tributo-citazione a Velazquez: Las meninas e Venere allo specchio compaiono alle spalle di Domenico Modugno, l’immondezzaro che porta via le marionette rotte cantando una canzone – “Che cosa sono le nuvole?”, di Modugno-Pasolini – talmente struggente che anche Stefano Bollani ha pensato bene di rifarne una cover mozzafiato solo contrabbasso e voce.

Tutta l’ultima fase del cinema di Pasolini, dopo l’esordio “nazional-popolare” sotto il segno di Gramsci, si svolge in feroce contrapposizione all’omologazione culturale neocapitalista: il cinema d’élite, la trilogia della vita e, infine, lo sfregio di Salò sono un tentativo di opporsi non solo con la mente e  la volontà, ma con tutto il corpo, anzi, con tutti i corpi alla profanazione del potere. L’iconografia filmica riprende ancora una volta la lezione longhiana, e se le citazioni diventano meno evidenti, più forte è l’attenzione alla costruzione di un’iconografia che vede nei corpi “imperfetti”, nei volti “antichi” di attori che vengono dalle periferie, dai deserti, dai villaggi del Terzo Mondo, le manifestazioni dell’antico sentimento del sacro e l’ultima forma di resistenza al fascismo della società dei consumi.

A questo riguardo, potrebbe essere interessante visitare, a Palazzo Albergati, sempre a Bologna, la mostra “Ottant’anni da situazionista”, dedicata a Oliviero Toscani, discusso fotografo di moda (ma non solo), aperta fino al 4 settembre. Vi è una sottile liaison che collega le due mostre: Toscani è l’autore della foto e, se ho capito bene, anche dello slogan, dei “Jeans Jesus”: uno stupendo sedere femminile fasciato da un paio di shorts con la scritta: “Chi mi ama mi segua” (o anche: “Non avrai altro jeans al di fuori di me”). A partire da quella pubblicità, Pasolini scrisse uno dei suoi più memorabili interventi giornalistici sul “Corriere della Sera” del 17 maggio 1973, col titolo Il folle slogan dei jeans Jesus (ora raccolto in Scritti corsari):

«Il futuro non appartiene né ai vecchi cardinali, né ai vecchi uomini politici, né ai vecchi magistrati, né ai vecchi poliziotti. Il futuro appartiene alla giovane borghesia che non ha più bisogno di detenere il potere con gli strumenti classici; che non sa più cosa farsene della Chiesa, la quale, ormai, ha finito genericamente con l’appartenere a quel mondo umanistico del passato che costituisce un impedimento alla nuova rivoluzione industriale; il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è più spazio. […]

Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans “Jesus” è una spia di tutto questo. Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando, per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi – di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.
C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un “nuovo valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.»

PS a margine: ho portato le mie due quinte del Liceo Berto a visitare entrambe le mostre, dopo aver letto i testi e le poesie di PPP e dopo aver visto alcuni spezzoni dai suoi film. Gli studenti sono rimasti decisamente affascinati e coinvolti (anche grazie alle brave guide che li hanno accompagnati lungo le stanze della mostra). Mi chiedo però, in quante scuole della nostra povera patria si riesce ad affrontare la lezione di Pier Paolo Pasolini? Fino a quando dovremo sopportare che gli insegnanti, sempre più ridotti a impiegati del catasto, a monsù travet, replichino stancamente programmi che terminano con Montale fatto a maggio di corsa? Quando finalmente sapranno offrire ai loro studenti la possibilità di attingere allo scrigno prezioso del nostro ‘900?

Ma forse sbaglio io e, ancora una volta, aveva ragione PPP, quando in Lettere luterane scriveva che la scuola era un’iniziazione alle qualità di vita piccolo borghese e andava abolita: “vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false moralistiche anche nei casi migliori [pensate all’introduzione delle ore di Educazione civica, quanto di più moralistico si possa immaginare, nda]. Inoltre, una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento… Altrimenti le nozioni marciscono.”

Nicola De Cilia
nato a Treviso, insegna presso il Liceo Giuseppe Berto di Mogliano Veneto. Collaboratore de «Lo Straniero», scrive attualmente su «Gli asini», riviste entrambe dirette da Goffredo Fofi. È autore di un’inchiesta su educazione e rugby, Pedagogia della palla ovale (edizioni dell’asino, 2015) e del romanzo Uno scandalo bianco (Rubbettino, 2016). Ha inoltre curato un’antologia dedicata a Giovanni Comisso, Viaggi nell’Italia perduta (edizioni dell’asino, 2017), e due libri di Nico Naldini, Alfabeto degli amici (l’ancora del mediterraneo, 2004) e Come non ci si difende dai ricordi (Cargo, 2005). Nel 2018, ha pubblicato con Ronzani Editore, a cura di Maria Gregorio, la raccolta di saggi Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta. Nel 2019 è uscito, sempre per Ronzani, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, a cura di Maria Gregorio.

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