Io ricordo dov’ero e cosa stavo facendo quel giorno, in quel momento; cosa ho pensato e cosa ho fatto dopo.  Ognuno di noi ricorda dov’era e cosa stava facendo quel giorno, in quel momento; cosa ha pensato e cosa ha fatto dopo. Da quel tardo pomeriggio di sabato 23 maggio 1992 per me e per molti ventenni della mia generazione nulla fu più come prima. Perché l’attentato di Capaci con la morte di Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Francesca Morvillo e Giovanni Falcone (io sono abituato a citare per primi i nomi degli “uomini della scorta”), non è stato solo un tornante drammatico della storia dell’italiana repubblicana, ma un evento che ha modificato le biografie personali e ideali di persone che fino a quel momento della mafia conoscevano poco o nulla. Ad esempio, fu in quel momento che decisi di abbandonare un lavoro sicuro e uno stipendio più che buono per iscrivermi all’Università e per ricominciare a studiare, a capire, a fare.

Tutto partiva da quella violenza mafiosa che dalla fine degli anni Settanta aveva insanguinato Palermo e la Sicilia: da Boris Giuliano a Piersanti Mattarella, da Pio La Torre a Carlo Alberto dalla Chiesa e Rocco Chinnici, solo per citare i morti “eccellenti”. Il “maxiprocesso” istruito nel 1986 da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino aveva fatto giustizia e spezzato per la prima volta una lunga tradizione di omertà ed impunità, permettendo di avere una visione comune del fenomeno mafioso e mettendo sotto accusa non solo i singoli (475 persone), ma l’intera organizzazione criminale. Il primo grado si concluse nel novembre del 1987 con 342 condanne, 2665 anni di carcere e 19 ergastoli (tra cui quelli a Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina). Il 30 luglio 1991 la sentenza d’appello ridimensionò le condanne, ma la Cassazione il 30 gennaio 1992 riconfermò quelle di primo grado che divennero definitive.

Non mancarono gli attacchi politici, i veleni e una forte ostilità di molti componenti della magistratura palermitana, che manifestarono dubbi e critiche al “maxiprocesso e ai suoi promotori. Il fendente più doloroso fu inferto però dallo scrittore Leonardo Sciascia, che sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 1987 pubblicò un articolo dal titolo I professionisti dell’antimafia. La sua tesi di fondo era che in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura era dichiararsi “antimafioso”, usare l’antimafia come strumento di potere. I suoi obiettivi erano Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, e soprattutto Paolo Borsellino che aveva ottenuto il posto di procuratore capo di Marsala alla luce “della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare”. Il finale di Sciascia era velenoso: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”.

Dunque Falcone e Borsellino iniziarono a morire già durante il “maxiprocesso”. Ma a quella tarda primavera del 1992 l’Italia politica e civile ci arrivò già scossa da altri eventi. Da tre mesi i magistrati della procura di Milano avevano cominciato a scoperchiare un sistema di malaffare fondato sulla corruzione. Tangentopoli e Mani Pulite entrarono nei discorsi quotidiani di tutti gli italiani. L’inchiesta partita con l’arresto di un “mariuolo”, Mario Chiesa, nel giro di pochi mesi avrebbe terremotato il sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica. Le elezioni del 5 e 6 aprile avevano consegnato un quadro politico molto complicato per i partiti di governo: la Democrazia Cristiana era scesa per la prima volta sotto il 30%, ma soprattutto un partito territoriale e antisistema, la Lega Nord di Umberto Bossi, aveva ottenuto quasi tre milioni e mezzo di voti, arrivando all’8,7%. Ne era uscito un Parlamento che dal 13 maggio, per dieci giorni e per quindici scrutini, non sarebbe stato in grado di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Dopo la notizia dell’attentato, nel giro di poche ore i principali partiti arrivarono a un accordo sul nome di Oscar Luigi Scalfaro, in quel momento Presidente della Camera, che risultò eletto il 25 maggio. Si aggiunga che l’attentato di Capaci era stato preceduto da un altro importante fatto sangue a Palermo, l’uccisione da parte di Cosa Nostra, il 12 marzo, proprio durante la campagna elettorale, di Salvo Lima, uno degli uomini più potenti della Democrazia Cristiana siciliana e soprattutto il referente di Giulio Andreotti nell’isola. Un chiaro segnale che i boss mafiosi avevano lanciato a quella parte politica che non era stata in grado di evitare l’esito finale del “maxiprocesso” e le pesantissime pene rese definitive dalla sentenza della Cassazione.

L’uccisione di Falcone e poi, meno di due mesi dopo di Borsellino, scossero l’Italia civile. Ma solo quella. Seguirono altri attentati, quelli tra il maggio e il luglio del 1993, dopo pochi mesi dall’arresto del boss Salvatore Riina: prima quello di via dei Georgofili a Firenze (5 morti), poi quelli di Milano (5 morti) e di Roma (fortunatamente senza vittime). L’Italia politica passò nel giro di pochi mesi dall’illusione di salvare il sistema del “bipartitismo imperfetto” sul quale era ancorata, a un bipolarismo schiacciato sulla contrapposizione tra il berlusconismo e il suo opposto: un’occasione perduta. La società civile, per fortuna, andò oltre. Fu capace di mobilitarsi in maniera autonoma sulle battaglie per la legalità (vedi Libera) e di raccogliere l’eredità morale dei due magistrati uccisi da Cosa Nostra e di tutte le vittime innocenti delle mafie. Insomma, di trasformare quell’immagine iconica di Falcone che sussurra e sorride a Borsellino in educazione civica. Anche per questo motivo nel 2018, quando ero assessore alle politiche educative del Comune di Mogliano Veneto, volli inserire la data 23 maggio nel calendario civile della Città, affinché nelle scuole, in particolare in quelle superiori, bambini e ragazzi potessero riflettere assieme alla cittadinanza sul significato profondo di quel giorno, per dargli memoria, senso, coscienza civile.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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