Uno dei temi apparsi nella trascorsa campagna elettorale è quello relativo alla sicurezza.

Tema caro non solo a una parte del nostro schieramento politico, ma a moltissimi cittadini.

Il motivo è semplice: viene affrontato come una chiacchera da bar.

Quando si guarda ai dati statistici, si vede come l’Italia abbia un tasso di omicidi (su 100.000 abitanti) molto più basso di tanti paesi europei (si muore di più nei paesi baltici e in Polonia) e che gli omicidi siano sistematicamente calati negli ultimi tre anni. Anche i reati, d’ogni tipo, denunciati alle forze dell’ordine, sono in calo. Gli omicidi di mafia calano dal 1990, la mafia si infiltra in tutto il Nordest con solerti collaborazioni come ha dimostrato il caso di Eraclea e di Bibione.

Non viviamo, naturalmente, in un paese pacifico. Nessun paese, in questa società, può esserlo. Può essere più o meno violento, il nostro è nella media europea (l’America latina in confronto è un incubo) o più o meno illegale, il nostro ha una buona posizione in questo senso.

La sicurezza violata, che invece peggiora negli anni, è quella sui posti di lavoro. Si muore sempre più di lavoro. La ripresa economica di questi mesi passa anche attraverso il sangue di chi si alza al mattino per andare in un cantiere edile, sulla strada, nell’agricoltura, nei settori produttivi più fragili e sottoposti alla concorrenza, dove si risparmia in formazione e sicurezza.

E questo risparmio si paga con la vita, ogni giorno, più volte al giorno.

 

Ancor più assordante è la sicurezza violata tra le mura domestiche, dove alla consueta violenza famigliare (esercitata vergognosamente anche sui figli), si aggiungono le uccisioni delle donne soprattutto da parte dei loro partner o ex partner.

Ma il fenomeno, se lo si guarda con attenzione, non è solo la manifestazione di una follia maschile. E’ l’esplosione, nel suo più alto grado di crudeltà, di un’attitudine sociale su cui si fonda il rapporto tra sessi. Una guerriglia millenaria che ha costruito un rapporto asimmetrico, non egualitario e, a gradi diversi, conflittuale.

Nelle società democratiche non sono poche le energie impiegate per combattere il femminicidio, un po’ meno per far avanzare la parità di genere. Ma nonostante gli sforzi “pubblici”, nella parte più intima della collettività, le pulsioni aggressive contro le donne, soprattutto le “proprie” donne, non diminuiscono in maniera significativa.

Perché un tale risultato?  Di cosa avremmo bisogno affinché il fenomeno si riduca visibilmente?

Le altre due strutture formative ed educative, dopo la comunità, sono la famiglia e la scuola.

I genitori devono aver chiaro che formare una persona e un cittadino è un compito più ampio, e complesso, che esprimere un affetto, mi auguro, spontaneo e inevitabile. E che tale formazione non si fonda sul fatto che i figli crescono comunque sotto l’ombrello di dio o della morale, ma essi si forgiano nell’esempio affettivo, nella qualità della relazione, nel contatto, negli abbracci, nella presenza.

I due generatori di vita devono aver chiaro che basse quantità di tali imprinting rendono più faticosa e fragile la crescita emotiva, l’unica vera eredità che dobbiamo passare ai nostri figli.

I genitori di figlie femmine devono, con discrezione ma con coscienza, educare le proprie future donne al tipo di società maschilista in cui si troveranno, agli ostacoli, a partire da quelli affettivi, che rischiano di convincere una ragazza ad essere la protesi di un compagno dominante.

E i genitori di figli maschi devono svuotare la facile tendenza ad essere dei guerrieri, ad assumere il ruolo, antico e banale, affidato ai giovani: uccidere o essere uccisi per il re, la regina o la patria. Non casualmente molti femminicidi sono accompagnati dal suicidio del guerriero impazzito.

La scuola ci prova a sviluppare una cultura di parità di genere, forse molto ancora deve essere fatto, magari con un po’ più di letteratura al femminile, magari navigando nell’oceano dei romanzi di questi tempi complessi (non ci sono solo autori morti nella letteratura!!!!).

Nel mio piccolissimo, provo a citare le scienziate donne e ricordo il caso di Rosalind Franklin, il cui contributo alla scoperta della struttura del DNA è stato riconosciuto tardivamente, mentre i principali meriti andarono a Wilkins, Watson e Crick, maschi e insigniti del Nobel.

Certo, alla fine, a chiudere il cerchio ci vorrebbe una comunità-società lungimirante e inclusiva.

Il cerchio, purtroppo, rimane ancora troppo aperto…

Fulvio Ervas
Fulvio è nato nell’entroterra veneziano qualche decina di anni fa. Ha gli occhi molto azzurri e li usa davvero per guardare: ama le particelle elementari, i frutti selvatici e tutti gli animali. Si laurea in Scienze Agrarie con un’inquietante tesi sulla “Salvaguardia della mucca Burlina”. Insegna scienze naturali e nelle ore libere tre campi magnetici lo contendono: i funghi da cercare, l’orto da coltivare, le storie da raccontare. Nel 1999 ha vinto il premio Calvino ex aequo con Paola Mastrocoda. Da allora ha pubblicato moltissimi libri tra i quali “Tu non tacere”, “Follia docente”, “Nonnitudine”, gli otto che hanno per protagonista l’ispettore Stucky da cui è stato tratto il film “Finché c’è prosecco c’è speranza” interpretato da Giuseppe Battiston e “Se ti abbraccio non aver paura” che ha vinto numerosi premi ed ha ispirato, nel 2019, il film di Gabriele Salvatores “Tutto il mio folle amore”.

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