Ancora oggi sarebbe vana la ricerca della notizia della tragedia del Vajont in un libro di storia dell’Italia repubblicana. E ciò a dispetto del fatto che si tratta del disastro più grave in termini assoluti che ha colpito la popolazione civile in Europa, almeno nel secondo dopoguerra. Sarebbe inutile una ricerca anche nel volume einaudiano dedicato al Veneto e uscito nel 1984. Gli unici che ne fanno menzione sono gli storici dell’economia, interessati evidentemente al tema della nazionalizzazione dell’energia elettrica e dello sviluppo in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Il Vajont possiede una sua unicità che le deriva dal contenere insieme tutti gli elementi che caratterizzano le catastrofi in epoca contemporanea: il rapporto tra politica ed economia, le pieghe di uno sviluppo senza pianificazione, il ruolo della stampa con le sue censure e autocensure, i risvolti giudiziari, la memoria pubblica dell’evento, il ruolo attivo dei sopravvissuti nel testimoniare il loro essere tali. Inoltre, gli attori del Vajont hanno dei nomi e delle responsabilità che, per chi li avesse voluti conoscere, erano già noti ben prima del 1963. Le Commissioni d’inchiesta – governativa e parlamentare – e il processo non hanno fatto altro che certificare, pur con tinte diverse, quanto già era ampiamente documentato e scritto. Ecco perché il Vajont può essere considerato un disastro “al cubo”.

Non è il numero delle vittime – comunque spaventoso – a renderlo tale, quanto il consapevole concorso di colpa di più soggetti.

Di fronte alle grandi tragedie nazionali l’opinione pubblica italiana oscilla però tra la solidarietà e la commiserazione, almeno fino al momento in cui non subentra l’indifferenza che conduce all’oblio. Ciò dipende dall’incapacità di assumere un evento come qualcosa che appartiene – al netto degli aspetti emozionali – alle vicende del Paese in cui si vive. Tale anomalia vale sicuramente per le catastrofi naturali, ma in parte anche per quei momenti della storia dell’Italia repubblicana a loro modo periodizzanti: tra gli altri, almeno la strage di Piazza Fontana, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, le stragi di Palermo del 1992. Il Vajont non fa eccezione. La rimozione è intervenuta a più livelli. Non è colpa solamente della tragedia che colpisce quella determinata comunità – peraltro periferica rispetto alle grandi trasformazioni di quegli anni – ma di una mancata elaborazione delle vere cause di quell’evento. Ammettere che il disastro è stato provocato dalla costruzione di un monumento della modernità, rappresenta qualcosa di davvero difficile da accettare. La memoria del Vajont è stata quindi confinata a lungo all’interno del recinto quasi privato – familiare e locale – della comunità di Longarone e dei bellunesi. Già a vent’anni dalla tragedia Tina Merlin ammetteva, con la stessa rabbia del 1963, che la memoria era ormai diventata un rito che durava lo spazio di un anniversario, ma annotava anche che era cresciuta una generazione che del Vajont non sapeva nulla e a cui quella storia doveva essere raccontata.

È noto come sia stata l’orazione civile di Marco Paolini a provocare una presa di coscienza collettiva, utilizzando l’unico mezzo che consente di attualizzare la tragedia, ovvero la narrazione. L’opinione pubblica italiana ne ha avuto contezza la sera del 9 ottobre 1997, quando Il racconto del Vajont è stato trasmesso da Rai 2 in prima serata con successo di audience e di stampa. La tragedia, grazie al talento affabulatorio di Paolini, acquista una dimensione pubblica, rimettendo in moto i meccanismi della memoria. Ma solamente quando lo spettacolo viene trasmesso in televisione. Il canone e il linguaggio sono quelli del teatro, è solo il mezzo a fare la differenza. Ma c’è di più. Appropriandosi dei testi di Tina Merlin, delle sue emozioni e della sua passione civile, Paolini diventa un maieuta della memoria, senza per questo sembrare un pedagogo. E finalmente parlare del Vajont significa sdoganarlo dal rito degli anniversari e dei decennali, dalla memoria locale dei paesi colpiti e restituirlo alla memoria nazionale, anche di coloro che nel 1963 non erano nati.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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