Come ha scritto Liliana Segre, rievocando la sua vicenda di deportata, ogni frontiera chiusa equivale a consegnare i civili ai carnefici. Oggi, come ieri, voltarsi dall’altra parte è complicità. Ecco perché, dopo il disastroso ritiro dall’Afghanistan, in questo momento esiste, da parte di quello che definiamo ancora impropriamente “Occidente”, un obbligo morale nei confronti delle persone già fuggite o aiutate a fuggire dal territorio consegnato ai talebani. Un dovere di accoglienza che va oltre le nostre responsabilità e colpe politiche (siamo direttamente responsabili di una situazione che abbiamo creato, avallato e accettato), ma che sta comunque dentro una visione di pietas nei confronti di civili che scappano da un teatro di guerra.

La notizia positiva è che il governo ha deciso, giustamente, di utilizzare una parte dei fondi destinati alle missioni militari (smettiamola di chiamarle umanitarie) per l’accoglienza dei profughi afghani, quindi per ospitare i circa 5.000 civili evacuati da Kabul nelle settimane scorse. Persone che verranno inserite nel circuito di accoglienza, la rete SAI (il Sistema di Accoglienza e Integrazione, ex SPRAR), nel quale dovranno essere reperiti nuovi posti per ospitare i nuclei familiari e assicurare loro i servizi riservati ai rifugiati, dai corsi di lingua italiana, all’inclusione, alla scuola per i bambini, al sostegno psicologico, alla formazione lavoro per gli adulti. E bisogna tener conto che le famiglie ospitanti devono essere formate e accompagnate nel percorso da mediatori culturali, assistenti sociali, educatori e psicologi.

Fortunatamente si stanno muovendo anche molti enti locali. Il 20 agosto scorso l’Anci nazionale ha pubblicato una nota operativa per invitare i Comuni a contribuire all’accoglienza dei cittadini afghani nell’ambito del Sistema di Accoglienza e Integrazione, che è stato istituito dalla legge n. 189/2002 (la tristemente nota legge Bossi-Fini) ed è costituito dalla rete degli enti locali che – per la realizzazione di progetti di accoglienza di  migranti forzati – accedono volontariamente, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Un Sistema che per anni, per ragioni che sono facilmente comprensibili, ha funzionato a singhiozzo e a macchia di leopardo. Ora, se un Comune è già titolare di un progetto SAI, può contattare il Servizio Centrale per verificare la disponibilità di posti da mettere a disposizione per l’accoglienza dei cittadini afghani. Per evitare distacchi dolorosi e consentire una reale inclusione, si stanno ricercando prevalentemente posti per nuclei familiari. Ma anche un Comune non titolare di un progetto SAI può manifestare il proprio interesse ad aderire alla rete, oppure mettersi in contatto con il Comune più vicino che ne fa già parte per valutare la possibilità di attivare nuovi posti di accoglienza sul territorio comunale. L’Anci ha concordato con il Ministero dell’Interno la pubblicazione di un avviso per finanziare l’ampliamento dei posti del SAI. E l’auspicabile disponibilità da parte di nuovi Comuni consentirà di allargare la rete di accoglienza diffusa, con una distribuzione più razionale sui territori di più Comuni.

L’alternativa purtroppo la conosciamo: sono i Cas, i centri di accoglienza straordinaria (come la caserma Serena) nei quali vengono già ospitati i migranti richiedenti asilo che arrivano via mare o dalla rotta balcanica. Uno scenario già visto in questi anni anche nel nostro territorio e che non solo non ha creato inclusione, ma ha alimentato tante tensioni, ovviamente fomentate e cavalcate dai soliti imprenditori della paura. Dal momento che i profughi sono persone, non pacchi da parcheggiare dove capita, è opportuno che le decisioni coinvolgano fin da subito gli amministratori locali, prevedendo una distribuzione capillare dei richiedenti asilo e promuovendo un modello di accoglienza integrata con il mondo del terzo settore. Perché a parole sono bravi tutti ad esprimere solidarietà. Poi però quando ci si deve sedere attorno a un tavolo e prevedere un progetto di accoglienza diffusa, la maggior parte degli amministratori si tira indietro perché arrivano gli ordini delle segreterie dei partiti strettamente collegate alla pancia di quegli elettori che preferirebbero aiutare i migranti a “casa loro”. Peccato che “casa loro” ora sia in fiamme per colpa nostra. Perché se da decenni vendi armi ai signori della guerra, l’arrivo di qualche migliaio di profughi è il minimo che ti possa capitare. “Asilo” significa essere in un luogo che non può essere violato, dove non possono rubarti la libertà. È ciò che chiedono gli afghani. Facile da qui, da dietro una tastiera, da dentro un appartamento chiuso da una tripla mandata. Ma noi siamo il Veneto che accoglie e che guarda al mondo, non quello che si chiude dentro le sue poche certezze e si arrocca sopra il proprio campanile. Per dirla con le parole di un “eretico” come don Lorenzo Milani: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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