Nei giorni scorsi è iniziata la raccolta firme per il referendum per l’Eutanasia Legale promosso dall’Associazione Luca Coscioni. Un’iniziativa che mira a colmare un vuoto legislativo e che propone la parziale abrogazione dell’articolo 579 del codice penale, che riguarda l’“omicidio del consenziente”, depenalizzando quindi l’“eutanasia attiva”, che si ha quando vengono somministrati farmaci che provocano la morte di chi la richiede e non, come nel caso dell’eutanasia passiva, quando si interrompono le cure necessarie alla sopravvivenza. Se il referendum fosse ammesso e se prevalessero i favorevoli all’abrogazione, l’articolo 579 sarebbe riscritto così: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.
Ma è evidente che poi dovrebbe intervenire anche il Parlamento. Del resto non possiamo pensare che debba essere sempre un tribunale a stabilire la non colpevolezza di chi aiuta un’altra persona nella sua ricerca di una morte dignitosa. La Corte Costituzionale, con la sentenza Cappato del 2019, ha legalizzato di fatto il suicidio medicalmente assistito e invitato il Parlamento ad intervenire offrendo adeguate tutele legislative corrispondenti al dettato costituzionale. Ma la politica è rimasta inerte. Per questo serve una legge subito. Che non toglie nessun diritto, ma concede a ciascuno di noi la possibilità di scegliere, di essere “liberi fino alla fine”. L’alternativa è continuare ad assistere a persone che si recano all’estero per accompagnare nel loro ultimo viaggio chi ha scelto di terminare comunque la sua vita senza inutili pene. E poi ai processi che vedono imputate queste stesse persone. Non dimentichiamo poi che questo è il paese di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, che con la fisicità del loro corpo ci hanno posto di fronte alla sofferenza della malattia e al tema del fine vita.
Cosa manca in tutto questo? Manca il coraggio di esporsi, di sporcarsi le mani. Certo è curioso che nessun leader politico nazionale si sia finora espresso sul referendum e nessun partito di rilievo si sia mobilitato per raccogliere le firme. Tocca, ancora una volta, alla società civile, alle formazioni minori, ai movimenti che da sempre su questi temi sono, senza se e senza ma, dalle parte dei diritti. Tocca a chi, a titolo personale, decide che occuparsi di persone devastate dalla malattia e dalla sofferenza, per consentire loro una fine dignitosa, valga molto di più di una candidatura o di un’alleanza elettorale. Oggi, se oltre al testamento biologico non esiste ancora in Italia una legge sul fine vita, la responsabilità è esclusivamente di una politica troppo timorosa rispetto ai temi potenzialmente divisivi per il proprio elettorato. Ma che politica è quella che non si occupa del dolore delle persone? Che politica è quella che non consente a ciascuno di poter scegliere di non soffrire e di avere una morte dignitosa? Per questo ho deciso di impegnarmi in prima persona nella raccolta firme per questo referendum. E spero che molti altri si attivino per dare la parola ai cittadini su questo tema.
Infine una nota di merito a chi queste battaglie le conduce da tempo, rischiando in solido. Diversi anni fa ascoltavo assiduamente e con interesse una trasmissione su Radio Radicale condotta da due giovani molto brillanti, “figli” entrambi di Marco Pannella. Uno era Daniele Capezzone che, dopo molte capriole e piroette politiche, è finito a fare l’opinionista televisivo. L’altro era Marco Cappato che, per nostra fortuna, è rimasto radicale.