“Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra italiani e, poi anche, dentro di noi. La costruzione di una vera democrazia chiedeva la messa in discussione del nostro passato e non solo la sconfitta del nemico esterno”. In questa riflessione di Vittorio Foa risiede, a mio parere, il senso profondo del 25 aprile. Che non è una semplice data su un calendario, ma dovrebbe essere un momento di “ri-pensiero”, di analisi profonda rispetto alla storia della Resistenza, che fu un’esperienza coinvolgente e totalizzante capace di trasformare gli orizzonti esistenziali e ideali di almeno un paio di generazioni, di cambiare le biografie di centinaia di centinaia di migliaia di donne e uomini, di orientare in senso democratico un Paese che era ancora fascista nelle sue leggi e nelle sue istituzioni. Nella consapevolezza che in quel momento, per dirla con Norberto Bobbio, tutti sapevano che cosa l’Italia avrebbe dovuto essere, ma non tutti sapevano esattamente che cosa l’Italia fosse.

Il 25 aprile 1945 gli italiani si accingevano a salutare un mondo nuovo e finalmente libero da quel regime che era stato davvero un’“autobiografia della nazione”. Dopo una Resistenza cominciata non l’8 settembre 1943, ma fin dalla marcia su Roma, ancora prima che il fascismo diventasse Stato. Una Resistenza durata vent’anni, prima nelle piazze e poi in clandestinità, in esilio, in carcere, al confino. Certo, è bene ricordarlo, non un’opposizione di massa. Anche per questo motivo il percorso verso quel mondo nuovo non sarebbe stato affatto semplice. Già nell’ottobre del 1946, giocando sull’assonanza dei due termini, Piero Calamandrei osservava come dopo l’epopea della Resistenza fosse iniziata una stagione di desistenza morale ed intellettuale che avrebbe aperto presto la strada ad una restaurazione politica, peraltro sotto le spoglie di una discutibile “continuità dello Stato”:

“Oggi le persone benpensanti, questa classe intelligente così sprovvista di intelligenza, cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani? una forma di banditismo. I comitati di liberazione? un trucco dell’esarchia. I processi dei generali collaborazionisti si risolvono in trionfi degli imputati. I grandi giornali si affrettano a riaprire le terze pagine alle grandi firme, care ai lettori borghesi: dieci anni fa celebravano l’impero e la guerra a fianco della grande alleata, oggi scrivono collo stesso stile requisitorie contro la pace spietata: e il pubblico si compiace di questi elzeviri ritrovati e non si accorge che questa pace è la conseguenza di quella guerra. Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli «scrittori della desistenza»: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre e accademie”.

Nelle parole di Calamandrei era palese la delusione per quell’occasione perduta e per la deriva verso cui, a suo parere, era avviata la giovane democrazia italiana. Che si trattasse di un amaro bilancio sull’Italia contemporanea era autoevidente. E non solo perché molti conservatori della vecchia classe liberale ed ex fascisti erano tornati ad occupare posizioni di rilievo, ma perché la Resistenza veniva quotidianamente rinnegata e delegittimata sul piano politico e morale.

Era purtroppo solo l’alba di una stagione che avrebbe poi portato a un revisionismo storico rispetto al fascismo e a quella straordinaria esperienza che fu la Resistenza. Oggi questi temi continuano a dividere non solo gli storici, ma anche gran parte degli italiani. Il fatto maggiormente preoccupante è l’uso pubblico che viene fatta del periodo fascista, anche perché ridimensionare il carattere totalitario del fascismo italiano e, al tempo stesso, delegittimare il ruolo dell’antifascismo, sta purtroppo diventando una pratica quotidiana esercitata non solo dalla storiografia revisionista, ma anche da divulgatori di basso profilo, giornalisti interessati e politici che di libri di storia, ovviamente, ne hanno letti ben pochi. Da anni una delle maggiori preoccupazioni della politica sembra sia diventata quella di contribuire alla formazione di una memoria comune attraverso la cancellazione del passato e la riscrittura di testi in cui il fascismo costituisce solo una parentesi della storia d’Italia. In questa versione edulcorata il ventennio fascista ha i tratti di un’esperienza tutto sommato da rivalutare secondo il vecchio adagio che il fascismo “ha fatto anche cose buone”. Altri aspetti come la negazione dei diritti politici e civili, la guerra d’Etiopia, le leggi razziali, l’alleanza con la Germania nazista vengono derubricati a semplici errori, quasi fossero stati dei piccoli incidenti di percorso. La vulgata revisionista, nelle sue varie forme, si nutre di una serie di luoghi comuni, che però spetta allo storico decostruire e possibilmente riconsegnare a quella società civile che crede ancora all’antifascismo come a un valore fondante della nostra democrazia.

Daniele Ceschin
Nato a Pieve di Soligo il 20.12.1971. Storico con un dottorato di Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea. Docente a contratto di Storia contemporanea dal 2007 al 2011 all’università di Ca’ Foscari di Venezia. Autore di pubblicazioni a carattere storico. E’ stato Vicesindaco a Mogliano Veneto dal 2017 al 2019.

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