Telmo Pievani insegna Filosofia delle scienze biologiche a Padova, una cattedra che è un curioso incrocio di discipline alquanto diverse; è un attivo divulgatore del pensiero darwiniano e scientifico, autore di importanti saggi, tra i quali Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina 2019), Homo sapiens e altre catastrofi (Meltemi 2018) e La terra dopo di noi (Contrasto 2019, con foto di Frans Lanting). A conferma della sua natura ibrida, ora aggiunge un “romanzo filosofico su fragilità e libertà” dal titolo Finitudine (Raffaello Cortina editore, pp. 280, 16 euro). Anche questo libro è una sorta di ircocervo che mescola il romanzo con il saggio. Protagonisti sono Jacques Monod (biologo, Nobel nel 1965 per la Medicina, autore, nel 1970, de Il caso e la necessità, uno dei saggi più coerentemente laici e antitotalitari del secolo scorso) e Albert Camus (Nobel per la letteratura nel 1957, autore de Lo straniero, Il mito di Sisifo, L’uomo in rivolta e La peste). La loro fu un’amicizia cementata dall’insofferenza a ogni forma di oppressione e di ingiustizia, sostenuta da un’inesausta curiosità di conoscere e arricchita da un culto appassionato della libertà.

Pievani immagina che Monod vada a trovare Camus nell’ospedale di Fontainebleau per discutere di un libro che stanno scrivendo a quattro mani. Camus è a letto, cosciente ma immobilizzato in seguito a un incidente stradale (in cui, nella realtà, aveva trovato la morte, il 4 gennaio del 1960). Alle bozze dei diversi capitoli si alternano i dialoghi tra i due, tramite i quali veniamo a conoscenza del loro progetto e di alcuni fatti importanti delle loro vite.

Il libro che stanno scrivendo è una sorta di inno alla finitudine di ogni cosa: tutto è destinato a perire, dagli organismi infinitesimali al sole, alle galassie, al cosmo intero. A sorreggere i loro ragionamenti, in cui si saldano i temi dell’esistenzialismo con l’illuminismo scientifico, il rifiuto di ogni forma di antropocentrismo: la vita sulla Terra non è che il risultato «di una gigantesca tombola genetica in cui vengono tirati a sorte dei numeri, tra i quali una cieca selezione designa i rari vincenti», perciò anche la presenza dell’uomo è frutto di un caso fortuito. L’evoluzione ha radice proprio nell’imperfezione del meccanismo di conservazione molecolare, nell’imperfezione della replicazione. La scienza, inevitabilmente, sgretola tutte le nostre illusioni, spazza via ogni mito edificante, esasperando l’assurdo della nostra condizione: non c’è un senso nella nostra esistenza e la conoscenza scientifica non può diventare una nuova religione mentre la natura, indifferente alle nostre sorti, non riveste in alcun modo un’autorità morale. L’unico discutibile privilegio sta nella consapevolezza della nostra finitudine: siamo zingari nel cosmo, dice Monod, e l’unico conforto è in quella solidarietà che può nascere tra emarginati. Non una resa al nichilismo e al pessimismo, dunque, ma «un’occasione per apprezzare la nostra libertà, e la nostra conseguente responsabilità morale, in un mondo che non aveva alcun bisogno di noi, e dunque non ci impone come pensare e come agire.»

L’approdo è verso un’etica della conoscenza basata su valori di un umanesimo scientifico, realista ma anche socialista che faccia leva sulle più elevate qualità umane – il coraggio, l’altruismo, la generosità, l’ambizione creatrice. Un finale che dietro l’entusiasmo rivela una certa amarezza: il sogno di Camus e di Monod risale a sessant’anni fa ma le loro parole continuano a suonare “inattuali”. Giacomo Leopardi, il principe degli “inattuali”, molti anni prima, nel Dialogo di Tristano e un amico, metteva in guardia dal divulgare le acquisizioni del pensiero filosofico più radicale, «perché, in sostanza, il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più conveniente a sé. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiaggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di esser nulla, né di non aver speranze. Nessun filosofo che insegnasse una di queste tre cose avrebbe fortuna o seguaci, specie tra il popolo: perché, non solo tutte e tre convengono poco a chi vuol vivere, dacché le due prime offendono la superbia degli uomini, ma tutte e tre per essere credute richiedono coraggio e forza d’animo.»

Nicola De Cilia
nato a Treviso, insegna presso il Liceo Giuseppe Berto di Mogliano Veneto. Collaboratore de «Lo Straniero», scrive attualmente su «Gli asini», riviste entrambe dirette da Goffredo Fofi. È autore di un’inchiesta su educazione e rugby, Pedagogia della palla ovale (edizioni dell’asino, 2015) e del romanzo Uno scandalo bianco (Rubbettino, 2016). Ha inoltre curato un’antologia dedicata a Giovanni Comisso, Viaggi nell’Italia perduta (edizioni dell’asino, 2017), e due libri di Nico Naldini, Alfabeto degli amici (l’ancora del mediterraneo, 2004) e Come non ci si difende dai ricordi (Cargo, 2005). Nel 2018, ha pubblicato con Ronzani Editore, a cura di Maria Gregorio, la raccolta di saggi Saturnini, malinconici, un po’ deliranti. Incontri in terra veneta. Nel 2019 è uscito, sempre per Ronzani, Geografie di Comisso. Cronaca di un viaggio letterario, a cura di Maria Gregorio.

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