Continua con la terza puntata il reportage dall’Ucraina di Christian Eccher
Rispetto al mio ultimo soggiorno in città due mesi fa, quando droni e missili solcavano ogni notte i cieli del sud dell’Ucraina, Odessa è più tranquilla. In questo periodo, l’esercito russo sta prendendo di mira la parte orientale del Paese. Le sirene suonano spesso, ma si sono registrati solo un paio di droni che sono stati abbattuti al largo delle coste del Mar Nero dalla contraerea; questa situazione – che in altri Paesi e in altri contesti sarebbe allarmante – ci fa sentire tranquilli, abituati come siamo ad attacchi più massicci.
Appena arrivato da Leopoli, dopo più di 12 ore di viaggio, vado nel mio solito caffè. A Odessa vengo ormai davvero spesso, ho una routine quotidiana fatta di luoghi, persone e incontri che mi fa sentire a casa. Appena uscito dal locale, un uomo di circa trent’anni mi ferma e, con estrema cortesia, mi chiede i documenti. Si presenta come un funzionario dell’SBU, i servizi segreti ucraini. Mentre prendo dallo zaino il passaporto e l’accreditazione giornalistica che mi è stata rilasciata dal Ministero della Difesa ucraino, si avvicinano anche due militari, appena scesi da un furgone parcheggiato poco lontano. Non appena vedono il passaporto italiano, con un sorriso gentile mi lasciano andare e si raccomdandano di prestare molta attenzione, soprattutto in caso di bombardamenti notturni. Si allontanano prontamente, salgono sul furgone se ne vanno con una certa fretta. “Sono i reclutatori – mi dice una signora che ha assistito alla scena – fermano i maschi e, se non hanno i documenti rilasciati dal TCK (centro di arruolamento militare, nda) – ti arruolano. Un mese di addestramento e poi vai al fronte”. Attorno a noi, i passanti, che come la signora hanno assistito alla scena, mi guardano con un pizzico di pietà. Con molta probabilità si chiedono se sia stato arruolato. La signora, sulla cinquantina, continua il suo monologo, probabilmente incoraggiata dal mio silenzio: “Qualcuno deve difendere il Paese, è vero, però è anche vero che è terribile quando ti fermano per la strada e ti arruolano, così all’improvviso. Da un giorno all’altro, devi lasciare tutto e andare a combattere. La guerra non è per tutti; non siamo tutti uguali, alcune persone sono adatte a sparare, altre no. Io ringrazio il cielo di avere due figlie, due femmine! Una è andata a vivere in Germania, l’altra è qui. È una grande patriota, aiuta i soldati e si dà da fare per l’Ucraina. Una cosa però è darsi da fare, l’altra è andare al fronte… la guerra è ingiusta nei confronti dei maschi”. La signora mi saluta e si affretta a testa bassa verso la più vicina fermata dell’autobus con una grossa borsa della spesa in mano. Anche io mi avvio verso l’hotel e mi rendo conto di aver dimenticato di chiederle il nome.
La città
Odessa è viva, le strade sono trafficate, gli studenti e i ragazzi delle scuole seguono le lezioni in presenza e solo raramente online. La via Delibarskaya, il centro della città, è il luogo di ritrovo preferito dei giovani e degli adolescenti. In determinati punti del centro, soprattutto sulla scalinata Potemkin, alcuni di loro improvvisano concerti, armati di chitarra, microfono e casse altoparlanti per amplificare la voce. È comunque evidente che ci sono meno persone rispetto al periodo prebellico. Quello che colpisce, è la quantità di ragazzi senza una gamba, che cammina con le stampelle e una protesi a sostituire l’arto mancante. Lungo la strada che porta al mare del quartiere di Otrada, c’è un negozio che invita, tramite un cartello esposto sul marciapiede, a rivolgersi al personale per avere una protesi di ultima generazione, finanziata dallo Stato. Anche in televisione, la sera, ci sono numerose reclame di centri di fisioterapia per coloro che sono rimasti senza un arto e per la vendita di protesi.
Come a ogni mio soggiorno in città, vado nel quartiere Moldavanka, che è l’anima di Odessa. Una zona popolare, con le sue case a due piani, i suoi cortili interni e il grande mercato delle pulci domenicale che si estende lungo le strade di tutto il quartiere. Una zona non trasformata dalle esigenze del turismo di massa e rimasta autentica. Entro in uno dei cortili, dove abita K. Una vecchia lada è parcheggiata sotto un ailanto, sul muro di una casa si avvinghia testarda una pianta d’edera e i gatti sonnecchiano sui davanzali delle finestre. A Odessa i gatti sono animali sacri: mangiavano i topi che si nascondevano nel grano e che abitavano, e abitano, il porto, in cui, allora come oggi, arrivavano e arrivano navi da tutto il mondo. Si muovono indisturbati fra i cortili e le finestre, entrano nelle case, nei bar e nei ristoranti e nessun avventore si permette di disturbarli se dormono su un tavolo o su una sedia destinata, in realtà, ai clienti.