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Quando il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin (1900-1959) formulò il termine “genocidio” nel 1944, non fece riferimento solamente al “crimine di barbarie” commesso nei confronti di una popolazione, un gruppo accomunato dalla medesima etnia o religione, ma vi associò quello di “vandalismo, consistente nella distruzione delle opere culturali e artistiche” appartenenti a questo gruppo o popolazione. Per i perpetratori, un genocidio non può dirsi completo se, dopo gli esseri umani, non ne vengono annientati anche monumenti, opere architettoniche, biblioteche e quant’altro testimoni la loro presenza, talvolta secolare, nel luogo da dove sono stati estirpati. Tale forma di genocidio è stato definito da studiosi del tema, genocidio bianco, dopo che il sangue versato aveva già pervaso di rosso strade e fiumi.

In tutta l’Anatolia, prima del genocidio armeno compiuto principalmente nel 1915-16, sorgevano molti antichi edifici armeni sacri e profani, che sono stati sistematicamente distrutti o abbandonati al degrado dalla fondazione della Repubblica Turca (1923) fino ad oggi. In tal modo si intende supportare le rinvigorite tesi panturche, con cui si nega che gli armeni furono il popolo residente in quei territori da tempi molto antichi e di gran lunga antecedenti all’arrivo delle genti di etnia turca.

Tale politica è stata adottata anche in anni molto recenti dall’Azerbaigian, fedele alleato della Turchia. Illustra molto bene l’intera questione un libro di recente pubblicazione intitolato Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena, a cura di Antonia Arslan e Aldo Ferrari, Guerini e Associati, Milano 2023 (pp. 223, 18,50 euro). L’opera raccoglie i contributi di diversi studiosi che analizzano la storia e la situazione del Nakhichevan nel campo dell’arte, della letteratura, degli antichi commerci, della religione, che attestano un’antica presenza armena nel territorio, totalmente fatta sparire.

Il Nakhichevan è oggi una enclave azera di circa 5000 kmq, che confina a est e a nord con l’Armenia, a sud e a ovest con l’Iran e a nord-ovest, per una quindicina di chilometri con la Turchia (dato tutt’altro che trascurabile). Se attualmente è parte della Repubblica dell’Azerbaigian, storicamente e culturalmente ha fatto parte dell’Armenia fin tanto che Josip Stalin, nominato da Lenin plenipotenziario per il Caucaso, nel 1922 non assolse, con machiavellico calcolo, al compito di tracciare opportuni confini tra le tre neonate repubbliche di Georgia, Armenia e Azerbaigian, da poco inglobate nell’impero sovietico. Stalin pensò bene di riservare un occhio di riguardo per la sua terra d’origine, la Georgia, mentre penalizzò scientemente l’Armenia a tutto vantaggio dell’Azerbaigian. Sembra che in questa manovra fosse stato influenzato dai buoni rapporti che aveva instaurato con Mustafa Kemal. Fu infatti in questa operazione che il Nagorno Karabakh (Artsakh) divenne quella martoriata enclave armena in territorio azero, di qui si è già precedentemente parlato in questo giornale.

Nel 1922 il Nakhichevan viene assegnato all’Azerbaigian. Diversamente dal Nagorno Karabakh dove la popolazione armena decide in massima parte di restare, dal Nakhichevan prende l’avvio un progressivo e massiccio esodo di armeni alla volta della limitrofa Armenia. Le genti se ne vanno, ma restano le pietre: testimonianze artistiche e architettoniche della loro secolare presenza. Anche qui, come in Anatolia queste opere subirono un graduale e inesorabile processo di abbandono e distruzione, uno stillicidio che passò lungamente inosservato.      

La situazione è però drasticamente precipitata tra il 1998 e il 2005. Il Governo azero sin dal 1998 aveva stabilito di procedere alla completa distruzione del patrimonio artistico armeno restante in Nakhichevan. Ha destato un’eco e una desolazione particolari l’azione con cui sono stati abbattuti oltre 2000 preziosi antichi khatchkar nella piana di Giulfa. Il khatchkar, è la tradizionale croce in pietra, finemente cesellata in pietra lavica, eretta per scopi religiosi e celebrativi, che rappresenta uno dei simboli dell’armenità. Una tradizione iniziata nei primi secoli successivi alla cristianizzazione e durata fino ai giorni nostri. Quelli di Giulfa coprivano un arco di tempo che andava dal V al XVI secolo. Nel 1998 proteste da parte dell’UNESCO, invitato a intervenire su sollecitazione del Governo armeno, interruppero momentaneamente i lavori delle ruspe. Questi però sono ripresi indisturbati nel 2002 per concludersi nel 2005, quando tutte le antiche croci sono state polverizzate e riutilizzate come materiale per la costruzione di una massicciata lungo una linea ferroviaria. Questo scempio è stato documentato e fotografato da rappresentanti della Chiesa Armena, giornalisti e storici dell’arte di diverse nazioni. Assieme al cimitero di Giulfa sono stati azzerati i restanti monumenti armeni del Nakhichevan e oggi non esiste più una testimonianza visiva che nella regione siano vissute le popolazioni che li avevano eretti.

La medesima forma di genocidio culturale operata in Nakhicevan può verosimilmente essere attuata oggi in Nagorno Karabakh (Artsakh), dopo l’invasione dell’esercito azero del settembre 2023 e l’esodo di una massa di profughi armeni alla volta della Repubblica Armena. In Artsakh è sempre esistito un vasto e ricco patrimonio architettonico armeno, consistente soprattutto in chiese e monasteri. Particolarmente noto è il complesso di Dadivank, i cui preziosi affreschi sono stati recentemente restaurati da una equipe guidata dall’architetto italo-armeno Arà Zarian e dalla restauratrice belga Christine Lamoureux. Una mostra fotografica organizzata dai Musei Civici di Padova a Palazzo Zucherman (7 maggio – 26 giugno 2022) ne ha documentato gli eccellenti risultati.

Ci auguriamo che i magnifici affreschi emersi da tanto lavoro, non vadano perduti, soprattutto alla luce della esplicita condanna espressa dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2022 sulla distruzione del patrimonio culturale del Nagorno Karabakh. Purtroppo, la cinica legge dell’economia il più delle volte prevale su tutto. Oggi in Europa abbiamo bisogno delle risorse energetiche azere e i ricatti esercitati dal dittatore Aliyev potrebbero prevalere su ogni legittima protesta.

Sandra Fabbro
Sandra Fabbro è nata a Treviso nel 1955. Laureata in Lingue e Letterature straniere (russo e inglese), ha insegnato lingua russa in corsi serali per adulti fino al 1989 e lingua inglese nelle scuole secondarie di primo grado fino al 2015. Ha collaborato alla stesura di unità didattiche finalizzate all’Educazione ai Diritti Umani, quale membro di Amnesty International. Dagli anni 2000 fa parte dell’Associazione Italiarmenia, con sede a Padova, collaborando all’organizzazione delle diverse iniziative di questa. Per il sito dell’Associazione redige recensioni sui libri di carattere armenistico che vengono pubblicati in Italia e queste vengono inserite sotto la voce “Novità librarie”. Ha tradotto dall’inglese “Surviviors. Il genocidio armeno raccontato da chi allora era bambino” di Donald Miller e Lorna Touryan Miller, Guerini e Associati, 2007. Fa parte del Comitato Scientifico per il Giardino dei Giusti del Mondo di Padova

1 COMMENT

  1. Interessante e istruttivo questo articolo. Tra Caucaso, Asia centrale e subcontinente indiano si è attuato il “Grande gioco” ben descritto nel libro dall’omonimo titolo di Peter Hopkirk (Adelphi). La parte mediorientale ha subito i contraccolpi dello smembranento dell’ImperoOttomano a cui è seguita la nascita di stati definiti da accordi Franco Britannici di cui purtroppo ancor oggi si pagano le conseguenze. Accordi e confini basati sugli interessi delle due potenze coloniali e molto poco su quelli delle popolazioni che vi risiedevano.

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