Paesaggio. Un’idea di Italia, un’idea di noi

Italia. È capitato spesso nel passato, tuttora capita, di chiedersi quali elementi integrino una realtà territoriale e culturale tanto difforme. La lingua, la letteratura, un certo modo di vivere. E anche la bellezza, concetto per molti aspetti mutevole, soggettivo e tuttavia, entro certi limiti e ambiti, codificato nel tempo.

Sono quasi ovunque in Italia le opere d’arte che incontriamo quasi per caso senza entrare in un museo. Basti pensare alle grandi e piccole chiese e ai loro affreschi, sparse ovunque nella penisola e non solo nelle città.

E intorno c’è, ci dovrebbe essere, il paesaggio. Un paesaggio che sempre ha affascinato gli spiriti d’Europa, che nella sua varietà si é a lungo caratterizzato per l’armonia fra spazio urbano e campagna circostante. Elementi distinti ma, forse proprio per questo, capaci di specchiarsi e valorizzarsi a vicenda. Lo stesso paesaggio che si osserva in molte di quelle stesse opere d’arte, un prezioso rimando che, chissà perché, ogni volta ci meraviglia. O ci stimola a futili indovinelli.

Secondo Salvatore Settis (Paesaggio Costituzione cemento, Einaudi 2010) “il paesaggio è la geografia volontaria che l’uomo plasma attorno a sé. Da un lato il lento modellarsi del paesaggio per opera di contadini, feudatari e sacerdoti, dall’altro il gran discorrere sul paesaggio (rendevano) diffusa, fra gli europei colti, l’idea che la mescolanza di bellezze naturali e d’arte offerta dall’Italia non avesse pari”.

Questo sentire diffuso ha dato vita a un lungimirante articolo costituzionale, l’articolo 9, pressoché unico nel suo genere. E con esso a un elemento fondante di identità collettiva. Che adesso stiamo perdendo.

Adesso i nostri consumi e accessi alla cultura, pur distribuiti in modo difforme rimangono bassi. In particolare la lettura, non solo quella dei libri.

Adesso consumiamo suolo alla velocità vertiginosa di 2 mq al secondo (ISPRA 2022). Adesso contiamo moltissimi comuni, sempre di più, esposti a grave rischio idrogeologico. I loro abitati, i loro abitanti, le loro opere d’arte, i loro paesaggi.

Non si tratta ovviamente, adesso, di ricreare un’epopea surrettizia di contadini, feudatari e sacerdoti (oltre che impossibile non la riterremmo auspicabile, se non per quanto riguarda i contadini). Si tratta, adesso, di fermarsi a riflettere. Si tratta di rafforzare la cultura della conservazione dedicata alle opere d’arte e agli edifici storici, di estenderla con rigore ed efficacia al paesaggio. Una cultura della conservazione che torni così a essere “uno dei principali fili di continuità della storia d’Italia” (ancora Settis).

Sulla catastrofica vulnerabilità cui il forsennato consumo di suolo condanna le nostre contrade, le nostre campagne, molti si sono puntualmente espressi prima ancora che i cambiamenti climatici incombessero sui nostri destini. In particolare su quello dei “nostri” giovani. Purtroppo, finora, inutilmente.

Non altrettanto approfondita attenzione, forse, si è dedicata alla collaterale catastrofe paesaggistica e ai suoi effetti sulle nostre quotidiane esistenze.

E qui la minaccia non viene “solo” dalle calamità cosiddette naturali e dal Moloch del cemento, abitativo, infrastrutturale o commerciale che sia. Viene anche da una certa smania di valorizzare, riqualificare, attrezzare. Come se la bellezza avesse bisogno di bellurie. O di maniglie.

Più di recente Serenella Iovino (Paesaggio civile, ilSaggiatore 2022) sottolinea che il paesaggio non è solo un’esperienza estetica vissuta in un determinato ambito territoriale o visuale, ma è il resoconto materiale delle storie e dell’anima di una comunità. Un testo in cui si leggono vite, corpi, sentimenti, rapporti sociali, dinamiche civili, poteri.

Una piccola ma significativa esperienza di questa realtà è fruibile alla periferia della nostra piccola ma significativa città. Ovvero al silenzioso sito storico e paesaggistico costituito dalla Filanda e dalla Chiesa di Campocroce, prospicienti un campo agricolo tuttora coltivato.

Un brano di paesaggio che racconta il dialogo fra la civiltà contadina (il coltivo) e la comparsa di un’attività industriale (la filanda) ancora in qualche modo legata alla terra, entrambe e insieme scandite, nei loro ritmi diversi, dal tocco delle vicinissime campane della Chiesa di san Teonisto (che di suo conserva opere pittoriche meritevoli). Si tratta insomma anche qui di un angolo non solo visuale, di un eloquente frammento testuale, di un tessuto narrativo non assimilabile alla consueta, obsoleta mentalità dell’edificazione urbana e suburbana.

Un segmento della nostra storia degno, come molti altri, di conservarsi leggibile nel tempo e nella memoria.

Necessita una postilla.

Una lettura superficialmente militante potrebbe interpretare queste poche, modeste righe, solo e semplicemente come un atto d’accusa verso la cosiddetta classe dirigente. Sarebbe troppo facile e troppo comodo. L’incurante dissipazione della bellezza che abbiamo ereditato dipende anche da noi, in buona misura da noi, e ancora da noi promana la classe dirigente che ci meritiamo. A ciascuno il suo.

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