La data del 24 aprile resta una data indelebile nella memoria collettiva del popolo armeno, sia tra i tre milioni che vivono nella Repubblica d’Armenia, che tra gli oltre sei milioni che compongono una vasta diaspora sparsa nel mondo da generazioni. Nonostante la lontananza fisica, le differenze linguistiche e di cittadinanza, tutti costoro commemorano il 24 aprile, quale data simbolo del Grande Male armeno, il genocidio subito durante la Prima Guerra Mondiale dagli armeni residenti nell’Impero ottomano.

            La minoranza armena all’epoca ammontava a circa tre milioni di individui, principalmente stanziati nell’Anatolia orientale, ma anche in grandi città come la capitale Costantinopoli e Smirne. Erano stati lungamente apprezzati quali sudditi fedeli del Sultano. Si erano guadagnati tale reputazione, avendo saputo trovare un giusto equilibrio tra la conservazione della propria identità di popolo cristiano, parlante un proprio idioma e portatore di una cultura millenaria, e la convivenza pacifica con una popolazione dominante a stragrande maggioranza turca o curda e di fede islamica.

            Gli armeni ottomani possedevano un livello di istruzione mediamente più elevato rispetto alle altre etnie, e anche le donne – diversamente dalle comunità turche, curde o arabe – erano tutte alfabetizzate, anche nei piccoli centri. Inoltre talune professionalità o mestieri specialistici erano in vasta scala appannaggio degli armeni, come quelli del medico o dell’orologiaio. Data la secolare abilità nella mercatura, nel tempo, alcune famiglie armene si erano arricchite, grazie a fruttuosi commerci non solo interni, ma anche nei mercati esteri. La stragrande maggioranza era però dedita all’agricoltura e all’artigianato. Ricordiamo, per inciso, che l’ultimo Regno d’Armenia era crollato nel 1375. Da quella data gli armeni furono sudditi di altri imperi (ottomano, russo, persiano).

Quando il Grande Male ebbe inizio, a Costantinopoli risiedevano le più eminenti personalità armene – scrittori, giuristi, politici, ministri del culto – figure di spicco che erano percepite come guide spirituali e istituzionali dal loro popolo, fondamentali punti di riferimento. Fu pertanto con la loro eliminazione che iniziò un genocidio accuratamente pianificato dal governo dittatoriale dei Giovani Turchi, i quali avevano assunto il potere con una sorta di colpo di Stato nel 1908. Nella loro ottica ultranazionalista, ispirata dalla dottrina del Panturchismo (o Panturanesimo), intendevano creare una grande patria esclusivamente turca, che si estendesse dall’Anatolia fino ai paesi turcofoni e di stirpe turca dell’Asia Centrale, come Uzbekistan o Tagikistan. Pertanto l’ostacolo principale che si frapponeva alla realizzazione di questo delirante progetto era costituito proprio dalle comunità armene, sempre più mal tollerate nel loro essere diverse, fiere della propria identità e culturalmente avanzate.

Nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, la polizia fece irruzione nelle abitazioni di almeno sessanta importanti leader armeni della capitale e, con il pretesto di semplici accertamenti burocratici, li condussero lontano dalle loro famiglie e li uccisero in breve tempo. A questa prima retata, che lasciò il popolo armeno orfano delle sue guide spirituali, ne seguirono altre.

            Quindi il piano procedette a tappe forzate con espropri, eliminazione della popolazione maschile o inserimento degli uomini validi in battaglioni di lavoro, deportazioni in massa in lunghe “marce della morte”, massacri, stupri sistematici, confinamento dei superstiti in campi di detenzione nel deserto siriano dove imperversavano epidemie e stenti di ogni tipo. Nell’arco di circa un anno i due terzi della popolazione armena ottomana erano scomparsi dall’Anatolia, poi altri massacri seguirono, negli anni immediatamente successivi.

            Oggi può sorgere spontaneo associare il 24 aprile al 27 gennaio, Giorno della Memoria per la Shoah: vi troviamo alcune analogie. Entrambe ci parlano di due genocidi, commessi da due dittature che si prefissero di cancellare dalla faccia della terra due popoli, gli armeni e gli ebrei, entrambi visceralmente odiati per la loro diversità culturale e confessionale e per gli alti livelli che molti fra loro avevano saputo raggiungere in campo sociale e professionale. Le sofferenze che ebbero a subire li accomunano profondamente. Ma il 27 gennaio, data di abbattimento dei cancelli di Auschwitz, rappresenta la fine di un incubo. Di lì a poco seguì un riconoscimento, da parte della nuova Germania, delle colpe commesse dalla Germania nazista, cui seguirono dei risarcimenti e l’insegnamento ai giovani studenti tedeschi nati dopo la guerra, della vera storia che li aveva preceduti.

            Per gli armeni nulla di simile è ancora avvenuto, e se il 24 aprile rapprenda l’inizio di un incubo, possiamo affermare che questo incubo continua ciclicamente a materializzarsi, nelle menti di molti armeni. Questo non avviene per una qualche forma di paranoia, ma sulla base di una causa concreta: il negazionismo è ancora imperante in Turchia, dalla fondazione della Repubblica Turca nel 1923, fino ad oggi. Si tratta di un negazionismo sistematicamente trasmesso a generazioni di studenti turchi tramite programmi di storia che falsano la verità su quanto avvenuto in Anatolia nel 1915, di un negazionismo arrogante, esplicito, ostinato da parte del presidente Erdogan, che, con lo scoppio della insensata guerra tra Russia e Ucraina, ha avuto l’ardire di proporsi quale “messaggero di pace”, senza che la cosa non suscitasse il ben che minimo dubbio sulla legittimità di tale ruolo da parte sua. Anche se non si possono negare le abilità diplomatiche del leader turco, le obiezioni  possono scaturire dall’assenza di spirito democratico nello stesso.

            L’Armenia è un piccolo paese, schiacciato tra due Stati – Turchia e Azerbaigian – i cui presidenti – Erdogan e Aljiev – hanno dichiarato, nel 2020 durante il conflitto per il Nagorno Karabagh, di voler “portare a termine l’opera dei padri” iniziata oltre un secolo fa. L’allusione è fin troppo chiara. Nessuno sembra preoccuparsene, tra i cosiddetti “Grandi del mondo”, senza riflettere sul fatto che il non dar peso a certe rutilanti dichiarazioni può riaprire la strada a nuovi immani dolori. Pertanto ricordiamo il 24 aprile, non solo per le vittime di oltre un secolo fa, ma anche per la salvaguardia degli armeni di oggi, su cui pesano l’offensivo attuale negazionismo e le recenti minacce turche e azere.

Sandra Fabbro
Sandra Fabbro è nata a Treviso nel 1955. Laureata in Lingue e Letterature straniere (russo e inglese), ha insegnato lingua russa in corsi serali per adulti fino al 1989 e lingua inglese nelle scuole secondarie di primo grado fino al 2015. Ha collaborato alla stesura di unità didattiche finalizzate all’Educazione ai Diritti Umani, quale membro di Amnesty International. Dagli anni 2000 fa parte dell’Associazione Italiarmenia, con sede a Padova, collaborando all’organizzazione delle diverse iniziative di questa. Per il sito dell’Associazione redige recensioni sui libri di carattere armenistico che vengono pubblicati in Italia e queste vengono inserite sotto la voce “Novità librarie”. Ha tradotto dall’inglese “Surviviors. Il genocidio armeno raccontato da chi allora era bambino” di Donald Miller e Lorna Touryan Miller, Guerini e Associati, 2007. Fa parte del Comitato Scientifico per il Giardino dei Giusti del Mondo di Padova

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