STORIA DI AZADEH Una giovane donna in fuga dal Caucaso in fiamme

Questa articolata e coinvolgente narrazione che ci apprestiamo ad illustrare, in cui aleggia per un lungo tratto un’aura di mistero, dà la percezione di essere un romanzo principalmente autobiografico, sin dai primi capitoli. E questo, non solo perché le due date di nascita dell’autrice e di Azadeh coincidono perfettamente – il 7 settembre 1988 – ma per la descrizione del personaggio di Azadeh, che accompagniamo dalla nascita, in una famiglia matriarcale, e poi via via, nell’infanzia, preadolescenza e giovinezza. Tutto il mondo che le ruota attorno è visto soprattutto con i suoi occhi: lo sguardo acuto, ironico, di una bambina e ragazzina molto vivace, ribelle, fantasiosa, curiosa, molto intelligente e per nulla conformista.

            L’arco temporale in cui si colloca l’intreccio descritto da Sabina Nurakhamedova in “Storia di Azadeh”, sottotitolo “Una giovane donna in fuga dal Caucaso in fiamme” – per i tipi di Oltre Edizioni, Sestri Levante, 2022, pp. 362, euro 19,90 -, va dal 1987 al 2020, e non si tratta unicamente di una storia privata di famiglia. Il tutto è collocato negli anni fatali in cui l’Unione Sovietica sta dando i primi segni di una inesorabile crisi, fino al crollo del 1991, per poi percorrere il caotico periodo immediatamente successivo, in cui tutto cambia molto rapidamente, troppo rapidamente per le persone semplici, come tanti personaggi di questa storia. La collocazione è Baku, capitale dell’Azerbaigian, dove incontriamo una famiglia azera, governata dalla indomita Shafiga. Che si tratti di una famiglia azera lo dicono i nomi, sia maschili che femminili, la teorica appartenenza all’Islam, anche se di fatto tutti sono atei, conformemente a quanto per generazioni ha predicato il comunismo. Ma ad un certo punto però, in questa famiglia si inserisce un seme armeno, che ne diviene una componente importante.

            Per chi era nato e cresciuto nei settant’anni di regime sovietico, non era insolito che cittadini di nazionalità differenti si mescolassero tra loro, andando a vivere, lavorare e metter su famiglia in repubbliche diverse da quella originaria d’appartenenza. Il russo era la koinè che permetteva, se vogliamo imponeva, a tutto il multietnico universo sovietico di comunicare, e faceva parte della cultura e istruzione di tutti, a sostegno della tanto celebrata “amicizia e fratellanza tra i popoli”. Amicizia e fratellanza che erano pura retorica politica e sono inesorabilmente scomparse a rapidi passi fin dal gennaio 1992. Amicizia e fratellanza dimostratesi impossibili sin dal 1988 tra armeni e azeri.

            Nell’affrontare questo argomento e con esso la questione del Nagorno Karabagh (qui chiamato Nagornjy Karabakh), l’autrice va coraggiosamente contro i dettami del suo Paese d’origine, in cui vige un governo dittatoriale liberticida imposto dalla dinastia Aliyev, e che lei stessa critica aspramente, sia pur attraverso le voci dei suoi personaggi.

            Per chi non lo conoscesse, ci riferiamo qui al conflitto iniziato nel 1988 in seguito alla richiesta da parte del Soviet del Nagorno Karabagh – antica regione  armena inglobata in territorio azero dai primi anni ’20, per opera di Stalin – di venir annessa alla Repubblica Sovietica d’Armenia. Tale richiesta trovò subito la netta opposizione del Soviet azero e la non approvazione del Soviet Supremo di Mosca. Scoppiarono scontri di frontiera tra azeri e armeni karabachi e si svolsero massacri di armeni residenti a Sumgait e Baku, per opera di giovani fanatici miliziani azeri in borghese, con il beneplacito di milizia e autorità locali. Dal 1991 fu guerra vera e propria, che si concluse con un primo cessate il fuoco nel 1994 e un esito positivo per gli armeni.Un nuovo conflitto, scatenato dall’Azerbaigian si è svolto nel 2020 e la situazione resta ancora molto grave, per le sorti delle popolazioni armene.

            Sabina Nurakhmedova è animata da un convinto spirito pacifista. Rifiuta la guerra, tutte le guerre come strumento di soluzione dei problemi tra nazioni, stati, popoli. Ritiene che gli unici a guadagnarci siano i mercanti di armi e i costruttori di queste, che necessitano di occasioni sempre nuove per sperimentare sul campo l’efficienza delle loro ultime invenzioni. Ma le sue opinioni su quelle che sono state le responsabilità dello Stato azero circa il problema del Karabagh appaiono evidenti. Azadeh, nei primi anni ’90, assieme a tutti gli altri bambini, sin dalla seconda elementare subisce un sistematico “lavaggio del cervello” da parte degli insegnanti, che attribuiscono agli armeni tutte le colpe dei mali che piombano sul popolo azero. A questi si aggiungono trasmissioni televisive, che forniscono sempre una martellante propaganda antiarmena, cui molti adulti sono portati a dar credito, non essendo ancora abituati, dopo un settantennio di monopartitismo e notiziari strettamente allineati, ad avere uno sguardo critico, a farsi venire dei dubbi. Lo stesso accade anche nella famiglia di Azadeh, finché non arriva a casa per una breve licenza Nasif, uno dei figli della matriarca Shafiga, che è stato arruolato nell’esercito azero, per combattere contro gli armeni in Nagorno Karabagh.

            A questo punto Sabina Nurakhmedova affronta una delle vicende più spinose e dolorose del primo conflitto. A Khojaly, una cittadina tra Agdam e Stepanakert in Nagorno Karabagh, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1992 fu compiuto un massacro di civili azeri “per opera dell’esercito armeno e di un reggimento russo”. L’autrice cita come fonte di informazione Human Rights Watch, che quantificò le vittime intorno alle 200, mentre il Governo azero ne dichiarò 600.

            Vasif , sopravvissuto a quella battaglia, racconta ai familiari: “La cosa peggiore è stata che i nostri politici e i comandanti sapevano tutto in anticipo. Sapevano e non hanno fatto niente. Avrebbero potuto proteggere il villaggio o evacuarlo, invece hanno lasciato che le cose andassero come sono andate, hanno sacrificato quelle vite per poter gridare al genocidio”. E conclude: “ Non ho più nessuna motivazione per combattere”. Poi un altro fatto lo ha turbato profondamente: azeri dei villaggi vicini sono accorsi con le loro auto per portare in salvo gli abitanti di Khojaly, ma solo su pagamento. Un orrore aggiunto all’orrore, ma di cui nessun notiziario ha parlato.

            Azadeh non è l’unica protagonista di questa storia, c’è anche Sasha, ovvero Aleksandr Gregoryan nato e cresciuto a Baku, da madre e padre armeni. Qui sposa Jeila, azera. I due si amano profondamente e la loro unione resterà indissolubile. Un matrimonio inizialmente molto osteggiato dalla madre di lei, l’indomita Shafiga, che non ammetteva che in famiglia si celebrassero matrimoni misti, contrariamente ad un costume ormai consolidato nella sua amata, e poi rimpianta Unione Sovietica. Per Sasha essere considerato uno “straniero” nel numeroso, talora chiassoso e litigioso parentado della moglie era un piccolo disagio, accettato con rassegnazione. Tutto cambia però quando iniziano i pogrom del 1988-89 per mano “delle squadracce del sedicente Fronte Popolare Azero” che non si limitavano a distruggere e devastare le abitazioni degli armeni, ma ne uccidevano brutalmente gli abitanti. Sasha si sente straniero e in grave pericolo in quella che aveva sempre percepito come la sua città, Baku, dove si sentiva a casa. Dove fuggire? L’Armenia, che avrebbe dovuto essere una Madre Patria, è alquanto matrigna, non si fidano di lui, perché proviene dalla terra dei nemici, parla un armeno stentato, meglio comunicare in russo, ma non basta. L’onta di essere ormai inviso in Azerbaigian, per quelle origini inequivocabilmente armene, si riversa anche su moglie e figli. Alla famiglia armeno-azera, nel 1991, quando le diverse repubbliche ex sovietiche diventano indipendenti, non resta che riparare all’estero, e la scelta cade sull’enorme Kazakhstan, che di lì a poco diventerà un Paese economicamente potente grazie al mare di petrolio che si estende sotto la sua superficie. Ma anche qui la vita per Sasha e Jeila, con i loro figli sarà tutta in salita, irta di difficoltà, anche perché Sasha è un uomo onesto, colto, abile e dotato di una certa  astuzia, ma soprattutto onesto, e non accetta i facili intrallazzi in cui potrebbe farsi coinvolgere dai nuovi ricchi, da coloro che nel marasma degli anni Novanta si spartiscono impunemente potere e denaro.

            La famiglia Gregoryan, specie i due coniugi, sperano sempre di poter un domani ritornare a Baku, di cui, nonostante tutto, hanno nostalgia, ma il loro sogno resterà per sempre tale, facendoli sentire degli esuli per il resto della vita.

            Anche una giovanissima Azadeh, sia pure per ragioni diverse, andrà a vivere in Kazakhstan, e di lì poi in Italia, ma questi sono risvolti tutti da scoprire.

Sandra Fabbro
Sandra Fabbro è nata a Treviso nel 1955. Laureata in Lingue e Letterature straniere (russo e inglese), ha insegnato lingua russa in corsi serali per adulti fino al 1989 e lingua inglese nelle scuole secondarie di primo grado fino al 2015. Ha collaborato alla stesura di unità didattiche finalizzate all’Educazione ai Diritti Umani, quale membro di Amnesty International. Dagli anni 2000 fa parte dell’Associazione Italiarmenia, con sede a Padova, collaborando all’organizzazione delle diverse iniziative di questa. Per il sito dell’Associazione redige recensioni sui libri di carattere armenistico che vengono pubblicati in Italia e queste vengono inserite sotto la voce “Novità librarie”. Ha tradotto dall’inglese “Surviviors. Il genocidio armeno raccontato da chi allora era bambino” di Donald Miller e Lorna Touryan Miller, Guerini e Associati, 2007. Fa parte del Comitato Scientifico per il Giardino dei Giusti del Mondo di Padova

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