La Repubblica d’Armenia e il Nagorno Karabakh (noto anche come Artsakh), antica regione armena, divenuta nei primi anni ’20 del secolo scorso una piccola enclave armena inglobata nella Repubblica Sovietica dell’Azerbaigian, sono da tempo stati messi in collegamento da una strada che, partendo appunto dall’Armenia, attraversa per una decina di chilometri il territorio azero, fino a raggiungere Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh.

Questa strada prende il nome di corridoio di Lachin ed è sempre stata di essenziale importanza per il collegamento tra la popolazione armena karabaca e lo Stato armeno, consentendo contatti non solo umani e culturali, ma anche commerciali e di sostentamento per questa piccola ma fiera enclave, che si è autoproclamata Repubblica indipendente nel 1992.

Questa azione politica scatenò un conflitto tra Nagorno Karabakh (supportato dall’Armenia) e Azerbaigian, conclusosi con la vittoria armena e l’occupazione da parte delle forze karabache di un territorio attorno al corridoio di Lachin, a garanzia di una sua maggiore protezione.

Nel 2020 l’Azerbaigian, con il sostegno logistico e politico della Turchia, ha attaccato il Karabakh e ha rapidamente riconquistato i territori precedentemente perduti, occupandone anche degli altri. Su queste due guerre, sulle loro cause storiche e conseguenze, non c’è qui spazio per un approfondimento, e nemmeno l’urgenza, che in questi giorni è di tutt’altro genere.

Veniamo all’oggi: il 12 dicembre 2022 dimostranti azeri in borghese, che si sono qualificati come “ambientalisti,” hanno bloccato il passaggio a uomini e mezzi di trasporto lungo il corridoio di Lachin (sempre rimasto in funzione), che continua a restare chiuso.

Non si tratta in questo caso – sia ben chiaro come qualcuno potrebbe fraintendere – delle solite proteste di lavoratori o pacifici contestatori cui assistiamo spesso in Europa, in cui vengono bloccate linee ferroviarie o tratti nevralgici di autostrade. Qui vengono bloccati aiuti umanitari (cibo, medicine, vestiario, carburante, etc) che la Repubblica Armena stava fornendo ai loro fratelli del Nagorno Karabakh, dove, a seguito della guerra di due anni fa, molte abitazioni, infrastrutture, fonti di sostentamento sono andate distrutte. Gli abitanti della piccola enclave armena necessitano di generi di prima necessità per sopravvivere.

Inoltre, alcuni di loro al momento in cui è scattato il blocco, si trovavano in Armenia, per ragioni di lavoro, cure mediche o studio, e ora sono nell’impossibilità di raggiungere le proprie famiglie. Una situazione che si sta aggravando di giorno in giorno e lascia spazio alle ipotesi sempre più nefaste circa le reali intenzioni dei politici turchi e azeri.

Erdogan e il presidente azero Aliyev, nel 2020 dichiararono spudoratamente e impunemente di voler “completare l’opera dei padri” circa il destino del popolo armeno, alludendo con chiarezza al genocidio perpetrato dai Giovani Turchi oltre un secolo fa. Nessuno in Occidente si mostrò scandalizzato, a livello politico. Queste dichiarazioni, a parte una mite protesta della Francia, vennero ignorate. Nel frattempo, la tregua sottoscritta il 9 novembre 2020 è stata violata ripetutamente dall’esercito azero, che ha anche compiuto azioni di sconfinamento dentro alla stessa Armenia, con un lancio di alcuni ordigni a lunga gittata verso città armene vicine al confine. Il tutto mentre la Russia, che ha ufficialmente funzione di peacekeeping, non sembra farsene efficace carico.

Tornando alle dichiarazioni dei due leader turco e azero, è fondamentale tener conto delle aspirazioni panturche di entrambi, e del potente Erdogan in particolare. Ai suoi occhi, a quanto pare, oggi, come nel 1915, gli armeni e l’Armenia costituiscono un fastidioso ostacolo geopolitico alla realizzazione dei megalomani obiettivi espansionistici che da tempo sta coltivando.

Alla luce di tutto ciò è pertanto importante cominciare a intervenire con iniziative concrete e immediate: sbloccare il corridoio di Lachin, che è stato impunemente occupato, sarebbe una prima valida mossa, per salvaguardare i primari diritti umani della popolazione del Nagorno Karabakh e per proteggere il popolo e la millenaria cultura armena dalle gravi minacce di persecuzione che stanno subendo. Unione Europea e Stati Uniti, per primi, dovrebbero fare la loro parte, per il bene non solo del popolo armeno, ma della democrazia e della giustizia nel mondo.

Sandra Fabbro
Sandra Fabbro è nata a Treviso nel 1955. Laureata in Lingue e Letterature straniere (russo e inglese), ha insegnato lingua russa in corsi serali per adulti fino al 1989 e lingua inglese nelle scuole secondarie di primo grado fino al 2015. Ha collaborato alla stesura di unità didattiche finalizzate all’Educazione ai Diritti Umani, quale membro di Amnesty International. Dagli anni 2000 fa parte dell’Associazione Italiarmenia, con sede a Padova, collaborando all’organizzazione delle diverse iniziative di questa. Per il sito dell’Associazione redige recensioni sui libri di carattere armenistico che vengono pubblicati in Italia e queste vengono inserite sotto la voce “Novità librarie”. Ha tradotto dall’inglese “Surviviors. Il genocidio armeno raccontato da chi allora era bambino” di Donald Miller e Lorna Touryan Miller, Guerini e Associati, 2007. Fa parte del Comitato Scientifico per il Giardino dei Giusti del Mondo di Padova

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