In Body copy al profumo di caffè (microcosmi di provincia), Lucio Carraro raccoglie appunti e note a margine che fissano su carta istanti prossimi a sparire, esistenze alla deriva. Potremmo forse definire queste glosse poesie in prosa. Un esempio: «Provò la sensazione di essere fiore, nuvola, farfalla e il desiderio di abbracciarsi e strofinarsi la pelle». È la chiusa di Pelle, il primo frammento: ci si ritrova tutta l’essenzialità della vita e della poesia.

Vien fatto di pensare che da adulti abbiamo scordato «la sensazione di essere fiore, nuvola, farfalla». Soprattutto abbiamo scordato che i sentimenti dell’uomo sono eterni: è questa l’intima ragione della poesia di Carraro. Un’altra ragione è il bisogno di limpidezza: Carraro cerca una scrittura quanto più sommessa e misurata, un niente che resista al frastuono delle cose, all’inarrestabile rovina del mondo.

In Carraro, la poesia è un uncino gettato nel profondo. L’occhio dello scrittore diventa allora acutissimo, alla ricerca di particolari inappariscenti. Ma dal suo microscopio, Carraro spalanca le porte a ciò che è indicibilmente grande e fuori portata. Si tratta, in altre parole, di privilegiare il dettaglio dirimente, perché è molto più risolutivo di qualsiasi sguardo d’insieme.

Per fare ciò, occorre nominare, sillabare, tentare attraverso una pronuncia mai sentita prima – o, viceversa, così antica da essere stata dimenticata, com’è dei balbettii della nostra infanzia – una rifondazione della lingua e del senso.

Risillabando le parole-chiave libertà, famiglia, casa, meraviglia, vita, giorni, Carraro recupera i sentimenti, e recupera la poesia: chiamandoli con nomi precisi e antichi, e insieme vaghi, indeterminati, definisce stati d’animo fondamentali da cui siamo venuti estraniandoci. Ce li racconta però in obliquo: se ne va a zig zag più tra profumi ed essenze, che tra fatti e cose. Questo continuo scartare di lato crea uno spazio di libertà nella fantasia del lettore. Conosciamo così l’incanto, l’aura che ogni parola sa esprimere da sé.

Che dire poi degli incipit: «Una mattina di marzo una donna si sentì d’improvviso perdutamente felice»; «Un giorno un giovane poeta raggiunse di buonora la stazione di una storica cittadina»; «Alle ore ventuno e qualche minuto di una sera d’estate un uomo appartato si innamorò di una donna che aveva occhi fosforescenti, capaci di illuminare la notte»; «Una vecchia maestra mentre stava sbucciando una mela…».

Sono inizi così rarefatti da apparire ingenui e infantili: c’è tutta la vaghezza del «c’era una volta»; non ci sono determinazioni né spaziali né temporali; ci si trova avvolti in una nuvola di sogno: tanti soffici brandelli – bioccoli, li chiamerebbe una signora d’altri tempi – che raccontano situazioni e sentimenti generici e semplici, ma che risuonano nel lettore come le intermittences di Proust.

C’è poi quella che, a proposito dei Sillabari di Parise, Mengaldo chiamava «fenomenologia del vedere»: anche le schegge di Carraro sono un inventario di cose viste da qualcuno che guarda da fuori. Più che esserci, cose fatti personaggi sono visti. Il verbo chiave è dunque «vedere», un verbo di senso; e si è già ricordato che Carraro procede non in linea retta ma zigzagando, come un bambino che sente e vede per la prima volta.

Giovanni Turra

Ancora, sotteso alla gran parte delle body copy c’è uno schema minimale che sostanzialmente non varia: «Un giorno» come indicazione di avvio, quindi un luogo il più delle volte appena accennato, quindi una sintetica vicenda che comincia a dipanarsi. Titolari della vicenda sono: l’uomo,la donna, il bambino e simili astrazioni o tipi. Non ci sono nomi propri. Altrettanto può dirsi delle indicazioni di luogo.

Sono trame esilissime, dunque, che però esplodono quando riusciamo a entrare nelle corde dei personaggi. E ciò in virtù dello stile: essenziale, rapido, fulmineo. Come nella chiusa di Dehor: «Sentì dentro di sé l’ombra di un turbamento e la cosa lo fece sorridere».

Anche le descrizioni fisiche dei personaggi sono parche: «un ragazzino dalla gambe lunghe e secche, ricoperte da una peluria simile ai fiocchi lanuginosi dei pioppi», «un uomo con i baffetti appuntiti». Viene invece descritta, a macchie di colori, la loro personalità: «Nei giorni di dicembre una donna, solitamente elegante, si alzava dalla notte abbigliandosi con una vestaglia color celeste bonbon, calzettoni di lana rosa fino al ginocchio e un paio di ciabatte slabbrate ma accoglienti».

Dialoghi non ce ne sono, ma il senso delle storie – che si rispecchiano le une nelle altre – risulta infine chiarissimo. È l’abilità più propria di Carraro: con le sue espressioni indefinite lascia passare immagini clandestine nelle teste dei lettori.

Infine, a colpire il lettore è anche l’uso, importante e struggente, dell’imperfetto indicativo: l’imperfetto di Carraro riflette il corso fuggevole della vita e specchia il senso complessivo dell’opera. Sembra che tutti gli elementi della vita siano lì per venir meno. Lo sguardo che li contempla è perciò uno sguardo di congedo: a un tempo malinconico e sereno. Così recita, significativamente, il finale del libro:

«Quando quel giorno sentì un cardellino salmodiare nel folto del suo melograno, gli parve di riconoscerlo e fu preso da un’infantile euforia. Che fosse venuto ad annunciargli che la favola continua anche oltre la vita?».

All’interno dell’irreversibile processo di disfacimento a cui tutti prendiamo parte, possono darsi porzioni d’esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui sembra di poter scorgere un disegno, una prospettiva. I microcosmi della provincia di Carraro sono una di queste infinitesime porzioni in cui l’esistente si raduna in una forma e acquista un senso; non fisso, non irrigidito in una immobilità minerale, ma cangiante e mosso come un organismo vivente.

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